Coronavirus. L’epidemia e i problemi psicologici

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di Piero Benassi (psichiatra) – Otto anni fa avevo scritto una monografia, “Le trappole della follia”, in cui rielaboravo la storia della psichiatria in riferimento a tutti quegli avvenimenti che in un qualche modo avevano modificato e sconvolto la vita di intere popolazioni richiamando tra l’altro le grandi epidemie, a partire dalla “peste nera” del 1300 che provocò circa il 30% dei morti in Italia e in Europa. Ma già prima della fine del primo millennio, una malattia epidemica, la lebbra, proveniente dalla Cina era arrivata fino all’Europa, quale malattia misteriosa o sacra, che già aveva colpito i crociati nelle guerre d’oriente.

Sorsero a quell’epoca i lazzaretti, tra cui quello che sarà il San Lazzaro di Reggio Emilia. Isolati gli invalidi, le popolazioni restarono in preda a terrori e spaventi, alla paura della morte o a quella dei castighi di Dio oppure dei malefici del diavolo.
Dal Medioevo fino al Rinascimento le manifestazioni endemiche o epidemiche della pazzia trovano origine oltre che dalle tracce sussistenti delle civiltà pregresse e da sollecitazioni istintive, dagli avvenimenti calamitosi delle grandi epidemie, nonché dalle esagerazioni e deformazioni del sentimento religioso.

Le epidemie di questi ultimi decenni sono ormai più o meno note, ma per questa attuale – ben più delle precedenti – sono state necessari una serie di interventi di autorità tesi a ridurre drasticamente la libertà individuale per cercare di bloccare la diffusione del virus. L’assenza o la perdita di una figura protettiva, come il buio o qualsiasi fattore di rischio più o meno grave, generano stati di paura perché comportano il senso del pericolo. L’attuale isolamento rappresenta una specie di copertura totale, di corazza, di difesa, una specie di farmaco ansiolitico più o meno globale per accettare senza riserve la vita sociale che in questi ultimi decenni si è dilatata a dismisura fino al fenomeno della globalizzazione.

Un periodo di vita più calmo, più meditativo e portato quindi ad una migliore conoscenza di sé, a una auto-consapevolezza e quindi inverte la risposta “combattimento e fuga” del corpo di fronte allo stress.
Nel suo Zibaldone, Giacomo Leopardi annotava una curiosa etimologia secondo la quale “meditare” deriverebbe dal latino “medeor”, che significa “curare, medicare”, per cui – concludeva – il medicare una cosa è una continuazione di averne o prenderne cura. La meditazione non è infatti imbottire lo spirito di nozioni, curiosità o altro (“arredare l’anima”, come dice Montaigne), ma è un plasmarla, un formarla e, se ci sono ferite, un medicarla e curarla.

Piero Benassi (psichiatra).