Vischi, il whisky e i cowboy dell’Enza

Rossoni parla ai sindacati fascisti in piazza del Duomo.

di Ferruccio Del Bue

Il racconto di una storia arricchita con chiacchiere e leggende da saloon mentre cade il trentennale del ‘Chi sa parli’.

Mi ricordo di un compagno socialista, abitava a Villa Aiola di Montecchio, si chiamava Atos Pisi, è morto. Faceva l’autista di mio papà quando era un parlamentare, strano perché Atos aveva un temperamento poco riformista. Di carattere mite, era però uno che raccontava di non avere mai avuto paura di menare le mani. E in pochi, per come lo conoscevo io, lo avrebbero sfidato. Mi parlava dei Paesi dell’Est, di quando nel Sessantotto si aggirava per l’Ungheria o la Cecoslovacchia: “La polizia è tutta uguale – raccontava -. Mena. Tutti fascisti”.
Dopo il pranzo o la cena, Atos gradiva il whisky e con il salire dei bicchieri scioglieva la lingua, allungava la conversazione e l’alcol rendeva più ferree le sue opinioni. “Non ho mai bevuto acqua”, gli piaceva dire con fare spaccone. Quella, aggiungeva, la succhiava dalla canna della gomma solo quando innaffiava il giardino di casa sua, a Villa Aiola.

Una volta mi raccontò che c’era stato un periodo in cui in sella al suo cavallo era solito galoppare da Montecchio fino all’Enza, per poi fermarsi sul greto del fiume a sparare con la pistola o con il fucile. Non lo faceva da solo, ma con un gruppo di amici. E assieme passavano il tempo a riempire di piombo i barattoli, fantasticando di essere cowboy. Avevano anche costruito una specie di saloon per girare un film al quale avevano dato il titolo “Per un pugno di pepite”. Mi aveva fatto vedere le sole scene rimaste impresse su una consunta pellicola muta: abbiamo riso assieme, tante risate. Volevo bene ad Atos, ma quando si infervorava ne avevo anche soggezione, perché era dotato di un carattere sanguigno. Testardo, era uno che mia nonna avrebbe definito in dialetto un “materièl”: un materiale. Quel tipo di persone buone e miti, ma che sanno anche essere fisiche.

Il fiume Enza da sempre per i reggiani in estate si trasforma in spiaggia

Non so dire il perché, ma ho sempre trovato un’assonanza tra questi ricordi e le volte che da studente appassionato di storia mi sono ritrovato a studiare le vicende reggiane del dopoguerra.
In modo particolare quando mi sono imbattuto in una figura, in un capo partigiano, Alfredo Casoli, che in battaglia si faceva chiamare Robinson. Non vorrei perdermi nelle pagine dei libri. Ma credo che davvero Alfredo Casoli sia stato un personaggio da raccontare, un eroe un po’ alla cowboy, un frutto originale della nostra terra. Un uomo che fu un tempo osannato per il suo coraggio e poi espunto con spregio dalla storia locale. Durante la guerra Alfredo Casoli, Robinson, fu un impavido cavaliere, il capo della 37esima Gap che si era contraddistinto per innumerevoli azioni in battaglia. Non temeva la morte. Sapeva maneggiare le armi. In un’azione leggendaria aveva salvato il vicecomandante della sua brigata, il Muso, Rino Soragni, che era stato ferito e, ormai in balia del nemico, dato per spacciato. Nessun altro, se non Robinson, con il suo disprezzo per l’aldilà, sarebbe riuscito in quella sortita tra le linee nemiche a riportare in spalla l’amico nell’aldiqua. Casoli il temerario invece lo fece. E vi riuscì. Sul campo Robinson si conquistò onore e medaglie. Poi arrivò la pace. Era certo un bene per tutti, ma forse non per lui. Lui che aveva bisogno dell’azione come dell’ossigeno nell’aria per respirare.

Avanguardie partigiane avanzano da Via Emilia Santo Stefano al centro di Reggio (pomeriggio del 24 aprile 1945).

Nel primo dopoguerra il capo della 37esima Gap fu guardato e ammirato dalle folle mentre camminava sul selciato romano della via Emilia, nel cuore del centro storico di Reggio, scandendo il passo alla sinistra di Palmiro Togliatti. E fu quello l’apice del fulgore del comandante partigiano, proprio mentre il suo nome iniziò a scomparire dalla ribalta delle cronache politiche cittadine, le quali, una volta consegnate o nascoste le armi e gettate alle spalle le gesta di eroi e vinti sui campi battaglia, iniziarono a puntare i fari sulla ricostruzione.

Palmiro Togliatti

L’ubriacatura per la libertà fu presto archiviata, in un attimo la laboriosa provincia si calò nella fase del post-Liberazione. L’azione della guerra dovette cedere il passo all’arte della politica: alcuni uomini non erano adatti a interpretare tutte le stagioni. E fu così che il nome di Robinson svanì. O meglio, sparì dai raidar dell’informazione, ma solo per un po’. E cioè fino a quando, all’imbrunire di un’afosa giornata agostana (correva il 31 di agosto dell’anno 1945), sulla sponda di un canale irriguo che costeggia la strada che da Lemizzone conduce dritta come un fuso nella rivierasca Brescello, una rivoltella esplose un colpo. E non per sbaglio. Ore dopo, dalle acque limacciose di quel largo fossato che sega la campagna, emerse la schiena di Arnaldo Vischi, direttore modenese delle gloriose Officine Reggiane che ogni giorno era solito percorrere quel tragitto a bordo della sua Balilla dal colore rosso sangue per rincasare. L’uomo era importante. Era lo stratega industriale di una fabbrica post-bellica che tentò di venire a capo della recessione giungendo a compromessi con il sentimento di giustizia sociale di quei tempi, una missione dall’esito praticamente impossibile. Tanto fu vero che Vischi per i suoi assassini divenne con effetto immediato il nemico numero uno del popolo, alias il padrone che deve morire. L’ammazzata, però, a discapito delle intenzioni dei colpevoli, sfuggì alle cronache della stretta reggianità e assurse a caso nazionale. Così, ecco che dalle oscure trame ordite nell’ombra, riemerse l’uomo che sa compiere l’azione. Sulla scena ritornò Robinson, quello dai bruschi modi e con le pistole alla cintola.

Una Balilla dal colore rosso sangue

All’ex comandante della Gap, e ai suoi 2 collaboratori in tempo di guerra, i mitici (almeno per i nomi) ex partigiani Topo e Padella, fu chiesto di mettere il silenziatore al clamore suscitato dall’omicidio dell’ingegnere Arnaldo Vischi. Ai tre a ordinarlo fu il Partito. Un tempo si diceva così: “Il Partito ha detto”. “Il Partito ha fatto”. A volte anche: “Il Partito ha ordinato”. Senza un particolare perché, ho sempre immaginato che Alfredo Casoli accettò quell’incarico di buon grado, condividendo cioè l’idea del Partito di compiere indagini in proprio, di accomodare le cose, pensando che la polizia non avrebbe mai potuto fare un buon lavoro, poiché quella (la polizia), da sempre, ieri come oggi, è roba “fasista”.

Finì così che Topo e Padella rapirono il presunto assassino di Vischi, individuato in un giovanotto della provincia, tale Nello Riccò, un operaio delle Officine Reggiane. E quella fu proprio un’azione da Topo e Padella: fermarono il giovane, lo caricarono con modi ruvidi sul sedile posteriore della loro auto e lo condussero bendato verso la Val d’Enza, la zona dei cowboy, dove scorre il river, il fiume. Quando giunsero a San Polo, risalirono i tornanti di Borsea, fino a raggiungere le scuole di Grassano (un edificio quadrato che c’è ancora, vicino al ristorante Turci, forse oggi residenza di immigrati), dove il Nello Riccò, dopo essere stato rapito, fu imprigionato e vigilato dal bidello e custode, tale Ultimio, un tipo fedele al Partito, ma anche al comandante Robinson.

L’ex scuola di Grassano. Quasi ogni frazione di Reggio Emilia, dalla Montagna alla Bassa, poteva vantare una propria scuola. Oggi, il più delle volte, sono edifici in rovina

Alfredo Casoli, già sul posto, quando gli sottoposero l’ostaggio cominciò a menargli le mani sopra. A menarle forte: calci, pugni e schiaffoni. Fu una notte agitata, in particolare per il percosso. Poi però, giunta l’alba, Robinson, che era uno fatto a suo modo, uno che amava decidere con la sua testa, liberò il pesto Riccò. “Perché non avrei mai ucciso un compagno”, testimoniò anni dopo al processo di Ancona.

La stessa sorte di Riccò, qualche tempo dopo, rapimento e corsa verso San Polo, risalita su per Grassano e poi prigionia nella scuola con tanto di botte, toccò anche a un altro ex partigiano, tale Vivaldo Donelli, detto Nessuno. Uno che andò a caccia di verità sul caso Vischi per le Officine Reggiane e anche per conto della stessa famiglia dell’ingegnere. Pure Nessuno, dopo essere stato strapazzato e stropicciato a fondo, fu rilasciato da Robinson e i suoi bravi: “Non si impicciasse più di quei fatti, però”, fu avvertito.

Robinson, dunque, appare, almeno in questi due casi, come l’uomo della violenza estrema, letale, promessa, ma non commessa. Una sorta di giustiziere con un suo codice morale, che sta agli ordini, ma fino a un certo punto. Non ammazza i compagni. Li punisce anche duramente con le ruvide mani. Ma non è un boia impietoso.

Di lui scriveva Eugenio Corezzola, pseudonimo Luciano Bellis, ex partigiano, poi redattore de La Penna e in seguito de La Nuova Penna, uno che lo conosceva bene: “Violento, ma estroso, focoso ma leale, egli era dotato di una pronta intuizione, d’insofferenza a qualsiasi imposizione, di fiducia in se stesso e di un certo ascendente sui suoi uomini, ed anche sulle donne, verso le quali si mostrava rude e galante al tempo stesso… Aveva fama di cacciatore e pistolero infallibile (un po’ caricata indubbiamente), una fama simile ai vecchi eroi del West, cui era affine anche per un certo codice morale e di cavalleria, tanto più evidente in una personalità genuina e anche un po’ selvaggia”.

La vicenda dell’omicidio di Arnaldo Vischi si trascinò per anni. Altre persone, almeno 3, furono assassinate o fatte sparire nel tentativo di insabbiare l’intera storia. Le indagini furono spesso depistate. Nei tribunali spergiuri e falsità si stratificarono ricoprendo ogni verità.
Arrivò poi il 1951, anno in cui, al tribunale di Ancona, andò in scena il processo sul caso dei casi consumatosi nel Reggiano. Con grande sorpresa dei rossi sul banco dei testimoni arrivò Robinson, il quale raccontò ai giudici la sua verità. Lo fece, si seppe dopo, perché era amareggiato da come fu trattato dai suoi ex compagni reggiani: era convinto che l’avessero usato per poi voltargli le spalle. Troppo presto il tempo degli onori era finito per Robinson che ormai si arrabattava e sudava fatica vivendo di espedienti e tirando a campare, alla giornata.

I funerali dell’ingegner Arnaldo Vischi. Presenti le autorità cittadine di Reggio Emilia

Terminato il processo, rotolarono numerose teste della politica nostrana. Fra le altre, quella di Didimo Ferrari, in battaglia Eros, o Duri. Due nomi per un’unica persona che in guerra aveva ricoperto il duplice ruolo di combattente partigiano e plenipotenziario commissario politico delle Brigate Garibaldi, il quale, a Liberazione avvenuta, fu nominato presidente provinciale dell’Anpi di Reggio Emilia, ruolo di primo piano, di spicco. Figura ritenuta più importante persino del segretario provinciale del Partito e del sindaco della città. Ma dopo che Casoli puntò il dito contro Ferrari, trascinandolo nella palude dell’omicidio Vischi, Didimo, il cardo maximus della Resistenza reggiana, fu condannato al carcere dal tribunale marchigiano. E così di Eros-Duri, nel bagliore di un lampo, si persero le tracce, cancellate dalle nebbie della Cortina di ferro. Eros riparò, latitante, nell’ex Cecoslovacchia.

Per quella sconvolgente testimonianza il comandante partigiano Casoli, tornato a Reggio Emilia, fu additato dai suoi ex compagni come un traditore. Divenne un appestato. Visse ritirato e si aggirò da solo per le strade, le persone conosciute gli girarono a ben oltre un metro di distanza, sorta di vero precursore dei tempi del distanziamento sociale per il Coronavirus.

Così, forse anche ormai vittima di una qualche mania di persecuzione, Robinson si convinse che, mentre tutti i suoi compagni in armi avessero la strada spianata per la carriera o almeno per un lavoro dignitoso, a lui solo toccasse arrovellarsi e farsi il sangue amaro fino al bruciore gastrico nel profondo delle viscere per sfangare pranzo e cena. Una situazione per l’ex capo partigiano frustrante, umiliante.
Corse la voce, tra chi lo vedeva, che gli fosse preso il vizio di aggirarsi per i bar cittadini, che avesse a gusto il whisky. Un Casoli provato e prostrato da quella condizione tentò ancora il colpo di reni. Decise un giorno di prodigarsi in un ultimo tentativo per risollevarsi. Fiero combattente che in tempo di guerra non aveva chiesto mai niente a nessuno, anzi erano gli altri semmai a domandare a lui, a volerselo ingraziare, Robinson si diede un cazzotto all’orgoglio e salì le scale della Cooperativa Abbattitori. Lì, tra quelli che comandavano, c’era il suo vecchio amico Rino Soragni, il Muso, quello che fu il suo vicecomandante. Ma soprattutto era proprio l’uomo al quale, dopo un’azione temeraria, salvò la vita. Casoli, un po’ a disagio nell’ufficio, biascicò una richiesta di aiuto: un lavoro, chiedeva. Non si sa davvero quali furono le esatte parole di quella conversazione. Magari le stesse che si dicono sempre in quelle occasioni: “Vediamo… sai, i tempi sono difficili. Teniamoci in contatto… che la prima cosa che viene…”.

Fatto sta che oltre le intenzioni non si andò. Anzi, quando il padre di Casoli di li a poco morì, al funerale gli fu negata la bandiera rossa del Partito. E per quel vecchio comunista il drappo rosso era stato tutta la sua vita. Fu la miccia. Nella mente di Robinson, che si sentì abbandonato a un destino di isolata solitudine, si fece strada l’idea. Era malsana, ma era pur sempre un’idea che lo avrebbe riportato all’agire. E il capo garibaldino, magari poteva essere un po’ appannato dai suoi dispiaceri e dal bere, ma non c’erano dubbi: era soprattutto un uomo d’azione. Fatto sta che si fissò e convogliò tutta la sua frustrazione sull’amico Soragni, sul Muso, fino al punto di promettere a se stesso: “Io a quello li gli prendo quel che gli ho dato”. Sapeva odiare e anche sparare, Robinson.

Si arrivò così a un pomeriggio di marzo dell’anno 1961 (la guerra cessata da ben 16 anni). Robinson, al solito, girò qualche bar. E forse calò qualche whisky. Poi salì sull’auto, si parcheggiò in via Fabio Filzi (a 2 passi da porta Santo Stefano, che era decisamente più bella di quella che c’è adesso), scese, imbracciò il fucile che aveva portato con se’, si appostò dietro un muretto e aspettò. Di li a breve dalla porta della sede della Cooperativa Abbattitori si affacciò la sagoma del Muso, rincasava dopo la solita giornata di lavoro a cavalcioni della sua bicicletta. Robinson prese la mira, più che un gesto per lui era istinto. Il rapido brivido del dito che sfiorò il grilletto e con la mente sgombra esplose lo sparo. Il botto squarciò i normali rumori. Prima delle urla dei presenti, in un attimo, Soragni, centrato dal proiettile, si accasciò al suolo e gemette: “A mòr…”.

Robinson fu attraversato da un fremito di adrenalina, come ai vecchi tempi. Quei tempi in cui a contare era solo l’azione. E proprio in quell’istante si sentì lucido. Non lo bloccò la paura. Col battito del cuore regolare e il passo deciso, ma non veloce, risalì sull’auto. Ripose il fucile al lato del passeggero. Guidò con calma fino a Corso Cairoli, poi si affacciò sul portone della caserma dei carabinieri e guardando negli occhi il piantone, disse con voce precisa, ma distaccata: “Sono Alfredo Casoli, Robinson. Ho appena ucciso il Muso. Dovevo farlo da 20 anni”.

La vicenda giudiziaria fece il suo corso. Per molti anni nessuno si occupò di quei fatti. Poi nel 1990 un ex deputato del Partito comunista, un ex partigiano ferito e decorato, Otello Montanari (l’inventore del Primo Tricolore), era un altro giorno afoso di agosto, il 29, questa volta, scrisse una lettera alla redazione reggiana del Carlino ricordando l’omicidio dell’ingegner Arnaldo Vischi. Tutta la vicenda riprese vita e ritrovò una rinnovata eco nazionale. Addirittura infuriarono polemiche forse più aspre di quelle vissute nello stesso dopoguerra: ci fu chi urlò la Resistenza è macchiata, o tradita, e chi invece ne difese a spada tratta ogni virgola.
Vi fu anche chi, come Gianpaolo Pansa, a sorpresa, viste le sue convinzioni di una vita, scrisse in punta di penna bellissimi romanzi su quell’epoca. Qui non interessa appurare se veritieri o meno.

Otello Montanari, ex partigiano decorato, deputato del Pci, diede il via al ‘Chi sa parli’

E sempre nel Novanta, in quel rimescolare la storia, emerse anche la teoria di un presunto filo rosso che unì il dopoguerra agli anni Settanta, quelli che poi divennero tristemente noti come gli Anni di Piombo.
A tale proposito si parlò più volte di una pistola consegnata (alla stregua di un simbolico passaggio di testimone) da un ex partigiano scontento di come stessero andando le cose dopo la Liberazione, al pari di altri ex combattenti per la libertà, a un gruppo di giovani reggiani che si erano messi in testa di fare la rivoluzione e che purtroppo in seguito furono conosciuti come brigatisti rossi.
Tuttavia, sul finire degli anni Sessanta erano semplicemente ragazzi, magari un po’ esuberanti, che avevano l’idea di spendersi per cambiare la società.

Gli Anni di Piombo

Ricordo che mia madre mi raccontò che alcune sue amiche parteciparono a una qualche riunione convocata da questi giovani, appuntamenti che si tenevano in centro storico, più precisamente in un bilocale con ingresso sotto i portici di via Emilia San Pietro. Aggiunse anche che quelle amiche, ben presto, decisero di non frequentare più il gruppo dell’appartamento. Certi atteggiamenti non erano piaciuti alle ragazze. Come quella volta, era di notte, che una parte dei giovani rossi decisero di guidare verso la Val d’Enza per raggiungere il greto del fiume. Giunsero lì, protetti dall’oscurità e dalle acque che ovattano i rumori, per iniziare a provare a sparare. Là non c’era nessuno… Là si poteva fare e fantasticare… Là, c’era una volta il west.

Cowboy sul fiume Enza