Il primo passo dell’umiltà è il silenzio

don Giuseppe Dossetti Centro Giovanni XXIII Reggio Emilia

“Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti? Perché resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza”. Così parla il profeta Abacuc, nel tempo più angosciante della storia d’Israele, quello dell’esilio e della distruzione di Gerusalemme. La domanda, però, è attuale. Forse, c’è ancora il tentativo di ridurre i problemi al rincaro dell’energia. In realtà, da tanto tempo, la guerra non è mai stata così vicina. Anche se essa non ha ancora dispiegato tutta la sua forza mortifera, avvertiamo che un tempo è finito, che l’unica globalizzazione che domina la scena del mondo è quella “della violenza e dell’oppressione”.

La risposta di Dio ad Abacuc è anzitutto la riaffermazione del suo dominio sulla storia. Se gli uomini pensano che Egli si sia voltato dall’altra parte, è solo perché non vogliono comprendere il senso di questo apparente ritardo. “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. L’animo che non è retto è quello di chi cerca scappatoie rispetto all’unica posizione giusta, quella di una sincera revisione di vita. Quello che chiamiamo ritardo, è invece un appassionato invito alla “fede”.

Che cosa sia la fede è domanda complessa. Noi tendiamo a interpretarla in modo intellettualistico, come se si riducesse all’adesione ad alcune verità somme, spesso considerate polverose. La fede della Bibbia è invece un moto di tutta la persona, è prima di tutto un consegnarsi al Tu che bussa alla nostra porta. Fede è anche accettare il limite e viverlo come qualcosa che ci educa, ci costringe a rientrare in noi stessi. Il profeta Isaia, in un altro contesto, critica l’agitarsi dei governanti di Gerusalemme, che discutono sull’alleanza con l’Egitto e sull’apprestamento di più moderne e potenti fortificazioni: “Così dice il Signore Dio, il Santo d’Israele: “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza,nell’abbandono confidente sta la vostra forza”. Ma voi non avete voluto, anzi avete detto: “No, noi fuggiremo su cavalli”.Ebbene, fuggite! “Cavalcheremo su destrieri veloci”. Ebbene, più veloci saranno i vostri inseguitori”.(Is 30.15s.).

Anche oggi è molto difficile trovare qualcuno che operi questo “ritorno a se stessi”. Eppure, si tratta dell’unica terapia efficace. L’apostolo Pietro scrive: “Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinchè vi esalti al tempo opportuno, riversando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché Egli ha cura di voi” (1Pt 5,5-7).

Il primo passo dell’umiltà è il silenzio.

Di fronte alla rovina di Gerusalemme, Geremia dice: “E’ bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (Lam 3,26). Dobbiamo ricostruire una nostra interiorità: come pensiamo, altrimenti, di dire parole sensate e di prendere decisioni efficaci?

Non si tratterà del silenzio del sordo, chiuso nella sua impotenza. Una purificazione avverrà, che permetterà di vedere con occhi limpidi e di portare avanti con costante impegno le decisioni necessarie. Non è lecito, soprattutto per chi ha responsabilità di altre persone, lasciarsi guidare dalle passioni, dall’orgoglio, dallo spirito di competizione. Chi è affidato a noi, ha il diritto di sapere che le nostre decisioni nascono dalla preghiera, magari nella forma laica della discussione sincera con noi stessi, quindi, ancora una volta, dal silenzio.

Se è necessaria una prova, essa sta nel confronto con la parola dei poveri. Il povero ha tempo per il silenzio. Se lavora,ha spesso mansioni umili e rapporti poco più che occasionali con i suoi colleghi. Se è malato, il silenzio diviene ancora più profondo. Dalla dura disciplina del lavoro o della malattia sorgono parole piene di peso, non volatili e volubili come quelle di chi si sente costantemente sotto l’attenzione altrui. Ascoltare i poveri fa bene, costringe alla sincerità, ci aiuta a vedere il bene, soprattutto quello nascosto. Anche quando protesta, il povero non perde mai la speranza.