History. Turati ricorda Prampolini

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Il 30 luglio 1930, a settantun anni, moriva a Milano Camillo Prampolini, e su La Libertà, organo della Concentrazione antifascista in Francia, del 9 agosto 1930, Filippo Turati lo volle ricordare dal suo esilio francese a tutti gli italiani di ogni fede politica. L’articolo-ricordo rappresenta una preziosa testimonianza del valore, dell’umanità, della visione storica e morale attribuita al riformismo da parte di colui che, non a torto, fu considerato “L’Apostolo” del socialismo.

Questo ricordo di Turati, che allora fu diffuso, letto e apprezzato all’estero e in Italia, merita oggi di essere riproposto come importante testimonianza storica del padre del socialismo italiano.

Prampolini e Turati si conobbero addirittura prima della nascita del partito a Genova nel 1892 e condivisero gli stessi ideali e le stesse battaglie per oltre trent’anni. Tra loro crebbe e si consolidò una profonda amicizia, una illimitata stima e una solidarietà rare a riscontrarsi, specie in politica.

Camillo Prampolini era il più amato- dovrei dire il più teneramente e religiosamente idolatrato- dei pionieri e dei condottieri del movimento socialista italiano. Uscito da una modesta famiglia borghese, egli stesso, nell’adolescenza, per suggestione dell’ambiente familiare- del resto rispettabilissimo- ebbe tendenze conservatrici e monarchiche. Fu allorché, studente di diritto, dapprima a Roma, poi a Bologna, cominciò ad osservare il mondo ed a riflettere, che si sentì profondamente commosso dallo spettacolo di miseria, di abiezione, di abbruttimento, in cui trascinavano la vita i poveri contadini della sua Emilia nativa; della rassegnazione e del servaggio intellettuale a cui li piegava una predicazione cattolica, che nulla aveva di veramente cristiano, che, al contrario, gli parve la negazione la più flagrante della schietta dottrina di Cristo: servaggio appena scosso a volte dalla inanità di fugaci ribellioni, inconsapevolmente anarchiche. Simili constatazioni che, nella più parte dei giovani, passano senza lasciare alcuna traccia, alcun impulso di azione, scavarono un solco profondo nel suo spirito, assetato di giustizia, penetrato di pietà attiva e battagliera.

Divenne, e rimase per mezzo secolo, non già uno degli apostoli, ma l’Apostolo il più vero, il più alto- e insieme il più umile- del socialismo italiano. Aveva compreso che, nella società capitalista, è difficile, e sarebbe spesso ingiusto, attribuire ai singoli la responsabilità dei torti che l’uomo fa all’uomo. Obbligati, come si è tutti a scegliere fra la parte di oppressori e quella di oppressi, fra l’essere sfruttatori e l’essere sfruttati, nessuno è personalmente responsabile, dell’iniquità sociale. Vi è bensì una responsabilità diffusa, collettiva e storica, contro la quale a nulla valgono l’odio cieco e la effimera violenza.

Il settimanale La Giustizia, di cui fu il direttore, il compilatore e l’anima per quasi un quarantennio- e che rimarrà modello insuperabile di propaganda ad uso dei più umili e diseredati –recava perciò nella testata la seguente epigrafe: “La miseria nasce non dalla malvagità dei capitalisti, ma dalla cattiva organizzazione della società, della proprietà privata. Perciò noi predichiamo non l’odio alle persone né alla classe dei ricchi, ma la urgente necessità di una riforma sociale, che a base dell’umano consorzio ponga la proprietà collettiva”.

Modestissimo e dotato di una probità intellettuale d’eccezione, Prampolini fu dunque soprattutto un educatore delle folle. Il libretto che in quest’ultimo anno, quasi necrologia prepostera, il suo fedele Giovanni Zibordi dedicò all’analisi minuta della luminosa opera del suo amico e maestro- libretto la cui diffusione sarebbe la più degna commemorazione del rimpianto compagno- mette questo carattere in vivissima luce.

Non una sola volta Prampolini fece la minima concessione alla fraseologia demagogica, che provoca il facile applauso lusingando le passioni volgari. Alla Camera dei deputati, come alla Camera del Lavoro, come nelle riunioni de’ suoi contadini, egli parlava sempre il medesimo linguaggio, che seminava attorno a lui ondate di bontà e sforzava alla commozione persino, se onesti, i più cattivi avversari.

Egli concepiva il socialismo come un’opera paziente di tutti i giorni, traducentesi in sforzi ed in istituti che, a grado a grado, innalzassero il proletariato alla capacità intellettuale, morale, tecnica, politica di sostituirsi alla classe dominante nella direzione della società. Sotto la sua influenza, la provincia di Reggio Emilia era diventata una meravigliosa oasi, in cui il socialismo embrionalmente si annunciava, affiorava, permeava di sé tutta la vita la vita proletaria, colla resistenza, colla cooperazione, con la lotta municipale e politica, e trasformava- anzi aveva già trasformata- la psicologia di tutto un popolo, pel quale esso aveva anche preso il posto della religione degli avi.

La sua propaganda, scritta e parlata, aveva tutte le virtù e nessuno dei vizi della propaganda ordinaria. Si potrebbe dire che, se ogni provincia d’Italia avesse avuto un Prampolini, anche gli errori, che certo non furono la causa, ma fornirono qualche pretesto al trionfo del fascismo, si sarebbero evitati. Questa probità mai smentita si rifletteva nello stile e nell’oratoria del nostro compagno, mirabili per lucidità, per calore, per profondità. Egli era, in qualche modo, l’oratore il più personale e, insieme, il più universale.

Il fascismo, che doveva brutalmente distruggere tutta l’opera del socialismo, non poteva risparmiare un così formidabile avversario. Esso lo costrinse ad abbandonare la terra che gli era prediletta, quella che aveva impregnata del suo pensiero e dell’anima sua. A Milano, dove cercò rifugio, la più atroce delle malattie lo uccise, varcato da poco il settantesimo anno. Ma la devozione dei contadini che egli aveva moralmente redenti, e l’affetto dei compagni, trovarono modo- a dispetto delle angherie poliziesche- di farglisi sentire presenti fino agli ultimi istanti.

Quando l’Italia sarà restituita alla civiltà, l’urna, che raccoglie le sue ceneri, sarà uno degli altari del proletariato italiano”.

Filippo Turati




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