Ma i Romani erano davvero razzisti?

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È solo apparentemente una domanda anacronistica quella che pone Mario Lentano nel suo interessante, e per niente scontato, libro “Classici alla gogna. I Romani, il razzismo e la cancel culture”. «I Romani [quelli di Romolo, per intenderci] erano razzisti?». Non fatevi intimorire dal titolo perché la lettura, godibilissima, rende “leggeri” gli argomenti (apparentemente) antichi trattati. Divulgazione intelligente e accattivante.
Che cos’è il razzismo, intanto. Ce lo facciamo spiegare da un politologo liberale, Nicola Matteucci, morto ormai da tempo, che insieme a Norberto Bobbio e Gianfranco Pasquino, aveva curato per la casa editrice di Torino Utet “Dizionario di politica” (1983).
La voce “Razzismo” l’ha scritta proprio il professore dell’Università di Bologna: «Col termine R. – scrive Matteucci – s’intende non già la descrizione delle razze o dei gruppi etnici umani, condotta dall’antropologia fisica o dalla biologia, ma il ricondurre il comportamento dell’individuo alla razza cui esso appartiene e, soprattutto, l’uso politico di alcuni risultati apparentemente scientifici, per indurre alla credenza circa la superiorità di una razza sopra le altre. Questo uso politico è indirizzato a giustificare e a consentire atteggiamenti di discriminazione e di persecuzione nei confronti delle razze ritenute inferiori».

I Romani, seguendo il ragionamento che Lentano sviluppa nel suo libro, non erano razzisti nel senso specificato da Matteucci. Pelle nera, dunque, «una questione – scrive Lentano – cui è legata quella dei significati che le culture antiche, e quelle romana in particolare, attribuivano al colore nero». (p. 19) Ossia? In Marziale, Giovenale, pseudoVirgilio, Petronio, Plinio il Vecchio e altri autori classici gli Etiopi, i Mauretani (gli abitanti di una regione del Nordafrica, regno e poi provincia romana) ossia gli “scuri” (i “coloured” modernamente detti), schiavi e schiave, sono descritti con un certo disprezzo che non deriva, però, da una discriminazioni biologica. I Romani, e non solo, associavano il “nero” alla morte e all’oltretomba, cioè essenzialmente a presagi di sfortuna. E se un “etiope” si presentava in certe circostanze era segno di cattivo presagio. E per lui la sorte non era benigna… La definizione “giorno nero”, riferito al primo dì dopo le calende, le none e le idi ecc.– afferma l’autore – «è un’espressione tecnica, appartenente al lessico delle religione romana».

Un’espressione, “giorno nero”, che è arrivata fino ai giorni nostri e, solo per citarne uno, il crollo della borsa di New York del 24 ottobre 1929, definito il “giovedì nero”.

Essere “etiope” non impediva di diventare membro dell’esercito o cittadino romano. Il discorso sulla cittadinanza romana è molto interessante e proietta, se cosi possiamo dire, il suo significato fino ai giorni nostri. Già la fondazione di Roma, ci ricorda Lentano, è nata da “genti” diverse e gli stessi abitanti del Lazio erano “profughi”. La fondazione di Roma è nata da un miscuglio (ma accozzaglia rende meglio l’idea), di etnie. I Romani hanno raccontato la «storia delle loro origini – scrive l’autore – e gli eventi che hanno preceduto quelle origini, chiamando in causa eroi troiani, e re arcadi, dei scacciati dall’Olimpo e superstiti del diluvio universale, nipoti di sovrani deposti e di usurpatori, banditi, pastori, fuorilegge, apolidi di ogni provenienza, tutti rigorosamente accumunati dalla caratteristica di giungere da un altrove più o meno lontano e di essere infine confluiti nel grande alveo della storia di Roma». Il leggendario Romolo, il fondatore di Roma, per costruire la Città eterna, aveva raggruppato introno a sé tipi poco raccomandabili, per usare un eufemismo. Ai Romani, afferma lo studioso di Lingua e letteratura latina all’Università di Siena, del moderno sostantivo “buonismo”, usato oggi per indicare negativamente chi manifesta buoni sentimenti, non importava nulla. Perché erano soprattutto pragmatici. Prima conquistavano, non certo con le buone appunto, poi includevano. Non erano interessati al colore della pelle o alla terra d’origine, ma prevaleva l’aspetto giuridico, separato dalla territorialità: «Né ‘ius soli’ né ‘ius sanguinis’ e neppure ‘ius scholae’ o ‘culturae’, quello della cittadinanza consisteva in un pacchetto di diritti e privilegi che prescindevano dalla concreta origine di un individuo». L’imperatore Caracalla, nel 212 dC, l’allargò, per solidi motivi pratici, a tutti i cittadini liberi dell’impero.

L’imperatore Claudio, parlando in Senato nel 48 dC – in cui si discuteva se concedere o meno la cittadinanza romana ai Galli, proposta accolta in modo tutt’altro che unanime, ma da lui sostenuta – e che Lentano cita nella sintesi di Tacito, ricorda che il suo progenitore non era affatto romano…
Con una certa libertà interpretativa, rubiamo le parole ad Antonio Gramsci, un classico del pensiero italiano e internazionale, che a sua volta le aveva citate dal filosofo idealista Benedetto Croce, colorandole con sfumature forse diverse: «Se scrivere storia significa fare storia del presente – afferma Gramsci – è grande libro di storia quello che nel presente aiuta le forze in isviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive»… Ecco allora la preoccupazione di Lentano, ma anche la nostra, sul tema della memoria, un tema che ha assunto, in questi ultimi anni, in ambito storiografico un notevole rilievo.

A Roma tanto in epoca repubblicana quanto in quella imperiale ci sono esempi di cancellazione letterale del nome di qualcuno, importante, da tutti i “documenti” dello Stato e persino dall’albero genealogico della famiglia; di roghi di libri “eretici”, pratica proseguita poi nel corso dei secoli. «Del resto, si sa che ai moralisti e ai repressori di ogni tempo tutto può mancare fuorché le buone ragioni: una constatazione che vale anche per la forma più recente assunta dalla censura nel dibattito e nelle pratiche culturali del nostro tempo». E arriviamo così alla “cancel culture”, che in Italia e in Europa si manifesta, almeno per ora, più blandamente attraverso il “politicamente corretto”, ma che nel mondo anglosassone, statunitense in particolare, ha assunto toni da crociata. Così nel prestigioso ateneo di Princeton, in New Jersey, agli studenti per laurearsi in “Classics” non è più richiesta la conoscenza del latino e del greco. Le ragioni appaiono nobili (ma forse anche economiche): per «creare un programma più inclusivo ed egualitario…». Un po’ come costruire una casa partendo dal tetto… Ancora: cancellata nel programma di una scuola del Massachusetts lo studio dell’“Odissea”. Il motivo lo spiega Daniel Padilla Peralta, «uno dei teorici più radicali della “cancel culture”», docente di origine domenicana che insegna a Princeton.
Così lo sintetizza Lentano: «Gli autori antichi hanno giocato un ruolo determinante nella formazione di una cultura bianca e discriminatrice nei confronti delle minoranze…». Con questa logica decontestualizzata vengono abbattute anche statue di personaggi storici, modificati dialoghi di film e romanzi.

In Italia, ad esempio, una certa cultura di destra evoca la classicità in modo del tutto mitizzato perché la romanità, come spiega bene il libro di Mario Lentano, non era rappresentata da una, inesistente, razza italica, perché la concessione della cittadinanza era una scelta politica che ampliava le basi della Roma repubblicana e, poi, in maggior misura, di quella imperiale. Un argomento inviso, almeno a parole, a tutta quella schiera di politici e italiani che paventano l’invasione straniera rappresentata da persone che arrivano in Italia (e in Europa) non perché affamate, ma per sgraffignare il lavoro agli italiani, e pagato solo qualche spicciolo, per sostituire la nostra razza con loro; per commettere quali altre infamie… L’egemonia politico e culturale passa anche attraverso la concessione della cittadinanza, come i Romani avevano ben capito.

Il libro del generale Roberto Vannacci letto da oltre ottocentomila persone, che si avventura fra le tante cose a trattare di accoglienza e razza italica, dimostra che non è vero che gli italiani non leggono ma «leggono – come scrive acutamente Mariarosa Mancuso sul “Foglio” di alcuni giorni fa – libri che li fanno sentire meno soli, come al bar o sui social».

(Mario Lentano, Classici alla gogna. I Romani, il razzismo e la “cancel culture”, Salerno Editrice, 2022, pp. 135, 18,00 euro di Glauco Bertani).

(Si ringrazia la Libreria del Teatro, via Crispi 6, Reggio Emilia).

 

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