Addio ‘Camèl’. La notizia della morte di Prampolini arrivò a Reggio con il passaparola

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All’inizio del 1929 Prampolini avvertì i primi sintomi della malattia che l’avrebbe portato alla morte in poco tempo. Accusò un forte e persistente “mal di bocca” e una “grande e crescente smemoraggine”, che gli rendevano faticoso lo svolgimento del lavoro. I primi sintomi erano comparsi già due anni prima, ma non vi diede importanza. Ora invece i dolori si presentavano via via sempre più forti, fino a diventare insopportabili.

Prampolini era giunto a Milano nel 1926, accolto con affetto dai pochi compagni reggiani già in “esilio” nel capoluogo lombardo, oltre che dallo stesso Turati. Conduceva una vita modestissima e ritirata, salvo recarsi presso il negozio “Casa bella” dell’amico on Mazzoni, per svolgere l’attività amministrativa. Appesa si apprese la notizia della sua malattia, che sempre più spesso gli impediva di lavorare e comportava visite e farmaci costosi, su iniziativa della moglie di Alberini, gli amici milanesi, Turati in testa, raccolsero una modesta somma di denaro perché potesse curarsi al meglio e aiutare la sorella Lia e la figlia Pierina nella conduzione della casa.

Prampolini ricevette il ricavato della sottoscrizione proprio il giorno della terribile diagnosi del prof. Donati di Torino, che non lasciava scampo: epitelioma mandibolare. Al ritorno dall’ennesima visita medica, dunque, trovò, con suo disappunto, la busta con il denaro e la lettera che l’accompagnava scritta da Turati.

La sua reazione non si fece attendere. Chiamò subito Alberini per restituirgli tutto. Il suo orgoglio e la sua dignità gli impedirono d’apprezzare lo spirito di riconoscenza e di solidarietà con il quale la colletta era stata promossa. Solo dopo molte insistenze e nella consapevolezza di poter aiutare economicamente la sorella e la figlia a sostenere le spese per le cure e il loro sostentamento, si convinse, suo malgrado, ad accettare l’aiuto dei compagni.

Prampolini seppe affrontare le cure mediche e i interventi chirurgici a cui fu sottoposto con grande forza, cercando di pesare il meno possibile sui familiari e sugli amici. Consapevole della inevitabile fine imminente, fu anche tentato di lasciare il lavoro presso il negozio “Casa Bella” dell’amico Mazzoni, ma quest’ultimo lo fece desistere con una lettera sincera e riconoscente, che terminava con queste parole: “Caro Camillo, non costringerci a continue battaglie contro il tuo stoicismo e i tuoi scrupoli. Qui c’è e si sente il tuo vuoto, e non si desidera che ti averti in buona salute e con tutti i riguardi che meriti”.
Camillo si sottopose a quattro interventi chirurgici a Milano e a Bologna, sopportò cure dolorosissime e deturpanti il viso, senza mai perdere lucidità. Fu in sostanza un paziente modello, deciso a seguire tutti i consigli dei medici che lo avevano in cura.

Appena appresa la notizia del calvario di Prampolini, Bonomi, il 17 maggio 1929, gli inviò una lettera, preannunciandoli una sua imminente visita: “In questa grande dispersione di amicizie, in questo naufragio d’ideali, in questo accavallarsi confuso di cose e di eventi, tu rimani sempre un gran faro di luce che illumina gli anni migliori della mia giovinezza.

E ti ricordo a Reggio nella tua casa tranquilla; e ti ricordo qui a Roma nei mesi memorabili dell’ostruzionismo e poi ancora, per tanti anni di fede e di apostolato. Per questo voglio venire a recarti il mio saluto memore ed affettuoso”.

Tutto l’antifascismo in esilio seguì l’evolversi della malattia con preoccupazione e angoscia. Turati, Treves, Modigliani, Baldini, Bocconi, Piemonte, Quaglino, Morgari, Buozzi, Rondani, Frola, Campolonghi, Ruggimenti, Clerici, Facchinetti, Saragat, Coccia, Nenni, Lussu, Buffoni, Carlo Rosselli e Sardelli, i compagni cioè esuli in Francia, gli mandarono alla vigilia del suo 71° compleanno un caloroso messaggio augurale.

Una seconda e più consistente raccolta di fondi gli fu recapitata poco dopo da Giovanni Zibordi. Essa gli permise d’affittare una villetta in via Alberto Mario, più consona al suo stato di salute e dotata di un piccolo giardino, che forse gli permise di sopportare meglio le sofferenze degli ultimi giorni di vita.
Ben presto purtroppo non fu più in grado di parlare, riuscendo a comunicare solo grazie a bigliettini scritti a matita. Vennero a trovarlo anche il dott. Bianchi, il dott. Amilcare Prampolini e da Reggio il suo amico il dott. Luigi Sozzi, che non fecero che constatare la rapida evoluzione del male.
La morte lo colse alle 2,30 di notte del 30 luglio 1930. Erano al suo capezzale la sorella Lia, la figlia Pierina, Zibordi e l’avv. Giaroli. Poco dopo giunse anche Nino Mazzoni commosso fino alle lacrime, con molti garofani rossi che depose sul corpo del maestro.

Un piccolo gruppo di compagni e amici seguirono il carro funebre al cimitero. C’erano Anceschi, l’ingegner Paglia, parente di Prampolini, Zibordi, Targetti, Simonini, Magri e Bellelli. Si presentarono anche il futuro presidente del Consiglio Ferruccio Parri e Meuccio Ruini. Dopo due giorni la salma fu cremata, come da sua volontà, alla presenza di Simonini e Bellelli.

Simonini, che con Bellelli e Magri, arrivò in ritardo da Reggio così descrisse la scena a cui si trovò di fronte: “Al Monumentale di Milano arrivammo soltanto mentre uscivano i non molti che avevano, sotto gli occhi della polizia, accompagnato la salma del maestro dalla casa di via Alberto Mario al cimitero”. Tale testimonianza sta a dimostrare quanto la polizia e i fascisti lo tenessero sotto stretta vigilanza, temendolo anche da morto.

Appena venuto a conoscenza della natura della malattia, Prampolini, infatti, riassunse in poche righe le sue ultime volontà: “La mia salma non vestita, ma soltanto avvolta in un lenzuolo, sia trasportata al cimitero in forma civile, sopra un carro d’ultima classe, senza fiori, non seguita dai miei famigliari e venga cremata, non sepolta. Né al cimitero né altrove nessuna lapide, nessun segno che mi ricordi”.
Resta importante per comprendere in quale considerazione i compagni avessero sempre tenuto Prampolini, ricordare e rileggere un passo della lettera che Zibordi scrisse alla figlia, nel 1932, in occasione dell’anniversario della morte del padre.

“I soli politici, i soli organizzatori e creatori di cose materiali possono passare. Ma i grandi Educatori, i maestri e diffusori di valori morali, restano e risorgono anche da passeggeri oblii, perché quei valori sono eterni, sempre necessari, vitali e pieni di capacità di risorgere, in quanto sono alla base della vita, sono inseparabili dall’umanità”.

Le sue ceneri furono trasportate a Reggio solo nel 1968.

Oggi nel cimitero monumentale di Reggio, subito dopo l’entrata principale, un semplice sasso con il suo nome lo ricorda a tutti i reggiani.

A Reggio nessun giornale diede la notizia del triste evento. I reggiani appresero che il loro “Camèl” non c’era più per vie informali, o meglio, grazie al passa parola.




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