Zucchero: “Depresso, volevo farmi fuori: ci ho messo 6 anni a uscirne”

Zucchero

Dopo il modenese-bolognese Guccini, tocca al reggiano Adelmo Zucchero “Sugar” Fornaciari confidarsi con Aldo Cazzullo – stavolta in coppia con Pasquale Elia – in una bella intervista pubblicata (a pagamento) dal Corriere del sera. “Ero depresso, ho pensato di farla finita. Amavo mia moglie, lei mi ha distrutto” il titolo ad effetto scelto dal Corsera (cambiato poi a metà pomeriggio in «Ero depresso, prendevo il Prozac e non sentivo più niente. Pippo? Un amico che ci provava con mia moglie») per questa lunga e sincera chiacchierata in cui c’è per altro molto di più, a partire da tanti ricordi dell’infanzia. E da un endorsement che sfata il mito di quell’Emilia rossa in cui – a quei tempi – un elettore su due votava Pci. Perché, così come Guccini aveva confidato di non aver mai votato Pci, anche Zucchero dichiara di aver «votato solo un paio di volte, l’ultima per Prodi: ogni tanto su Facebook scrivono che sono un vecchio comunista, ma non è vero. Comunista non sono mai stato. Certo, sono di sinistra, vengo da una famiglia rossa. Mio zio zitello nella sua cameretta teneva tutti i libri di Marx, Lenin, Mao».
Proprio a suo zio Enzo detto Guerra – che «era stato nei lager, viveva con una scheggia di granata vicino al cuore, aveva la passione dei moschito e mi costruì la prima chitarra, con le corde fatte con il filo da pesca»  – è ispirata «Oh avanti popolo con la Lambretta rossa…».
«Mangiava riso in bianco tutte le sere, perché voleva mangiare come Mao, e passava i pomeriggi su una panchina a litigare con il prete, don Giovanni detto don Tagliatella – racconta ancora Zucchero – Rivali e amici, come Peppone e don Camillo. La domenica mi diceva: “Delmo, vai a chiamare il prete, che è solo, portalo a pranzo da noi”. Sono morti negli stessi giorni, prima il prete poi lo zio».

A Cazzullo Zucchero confida anche di non ricordare i morti di Reggio Emilia del 1960 – anche perché non non aveva ancora cinque anni – «ma la memoria della Resistenza era molto viva. Feci la comparsa in un film con Volonté e la Gravina, ero una mascotte partigiana. Sono sempre andato nella casa dei fratelli Cervi, un nipote si chiama Adelmo come me». E ricorda che la sua canzone Partigiano reggiano ha ispirato un murale sull’autostrada: «È dedicato ai quattro fratelli Manfredi e ai due Miselli, fucilati dai fascisti con i loro padri. Lo volevano cancellare, dicevano che distraeva gli automobilisti. Ci siamo un po’ battuti, l’hanno lasciato».

Nei ricordi consegnati al Corsera c’è spazio anche per i genitori Rina e Giuseppe, detto Pino, mezzadri sotto padrone a Roncocesi; «per nonno Roberto che chiamavano Cannella perché era alto e magro, lavorava in un caseificio dove i contadini portavano il latte la sera e «quando andò in pensione, papà prese il suo posto e io lo aiutavo accendendo le caldaie prima di andare a scuola e lui mi dava il tosone da portare come merenda»; per la maestra «che mi chiamava Zucchero perché ero introverso, sempre all’ultimo banco, non parlavo mai; anche se con qualche compagno siamo amici ancora adesso. Ero un bambino molto educato: vengo da una famiglia di contadini, guai se non ti comportavi bene».

E ovviamente per nonna Diamante «la moglie di nonno Cannella, quindi la mamma di papà e di zio Guerra, che era di Cavriago, il paese di Orietta Berti, di cui era lontana parente. Una signorina non tanto alta, col naso a patatina e gli occhi azzurri. Sembrava già vecchia, perché le donne erano tutte vestite di nero. Il testo della canzone l’ha scritto De Gregori, ho solo cambiato un verso: “Aspetterò che aprano i fiorai…”. Mi dissi: non è da me, non è credibile. Così è diventato “aspetterò che aprano i vinai”».

Zucchero ricorda poi i difficili esordi musicali, il Sanremo con “Donne” di Alberto Salerno – «ai concerti non canto quasi mai, perché mi vergogno del du du du» – il problematico rapporto con Mogol, a cui la Polygram lo aveva affidato. E che un giorno gli disse: “Nel cerchio più esterno c’è la robetta; in quello più interno ci sono i cantautori; al centro, quello più piccolo, c’è solo Battisti. Fuori, tutto attorno, c’è il mare di merda. Indovina tu dove sei? Tu sei nel mare di merda”.

Per questo, l’anno dopo, per reazione Zucchero scrisse “Rispetto”, dedicandola a Mogol e alla ex moglie Angela. «Mi ha massacrato. Però a suo modo è stata una fonte di ispirazione. Ora vorrebbe i diritti di autore… È stato un grande amore. Ed è stato un inferno», confida Zucchero.
«Era bellissima, ma a colpirmi fu la malinconia dei suoi occhi. Non sono mai riuscito a capirla, neanche adesso. Impenetrabile. Durissima. Mi sono sposato a 23 anni, lei era ancora più giovane. Mi aveva lasciato il giorno prima che partissi per il Forte Village, in Sardegna, dove dovevo suonare per un mese. Le telefonavo e non rispondeva mai. Al ritorno con la 128 scassata di mio padre andai ad aspettarla fuori dal negozio dove lavorava, e le chiesi di sposarmi. Lei rispose di sì. Fino a quando una notte mi disse: “Ti lascio, non ti amo più”. Ma non so se mi abbia mai amato davvero, di sicuro “ti amo” non me l’ha mai detto, e neanche “ti voglio bene”. Mai. E la mia presunzione era farla sorridere, renderla felice».

Proprio per prenderle una casa vicino alla madre, Zucchero si indebita per 500 milioni e scivola nella depressione. «Non sapevo dove prendere il denaro, dovevo pagare 50 milioni ogni sei mesi; la prima rata me l’aveva garantita un impresario, in cambio di una tournée al Sud. Vado a Roma a ritirare i soldi, e mi dice che non ci sono. Mancano quattro giorni alla scadenza, se non pago ci portano via la casa. E nel frattempo era arrivata la seconda figlia».

Come se l’è cavata?, chiede Cazzullo.
«Telefono a tutti i produttori con cui ho lavorato: quello di Viareggio, quello di Bologna, quello del Piemonte… A tutti offro tre anni di esclusiva, in cambio di 50 milioni. Niente, al massimo me ne danno 20. Allora chiamo il manager dei Matia Bazar, Paolo Cattaneo, che aveva un ufficetto e mi aveva detto: Delmo, quando sei solo, hai freddo, piove, vieni a trovarmi. Vado a trovarlo e lui mi mette in contatto con un musicista che aveva suonato con Paoli e ora voleva diventare produttore: Michele Torpedine. Penso: Torpedine… già il nome non mi piace».

In realtà sarà proprio Torpedine a portarlo al successo, concedendogli un anno sabbatico per scrivere canzoni e arrivare ai trionfi del 1987: Con le mani, Pippo, Solo una sana e consapevole libidine, Pippo… «un amico che ci provava con la moglie Angela, e temo ci sia anche riuscito».

Il matrimonio sta finendo e la depressione continua: non lo aiuta Telereggio, che «manda uno a intervistare mio padre: le piace la musica di suo figlio? E lui: no, a me piace la mazurca. Mi ritirai in una casetta di legno sul mare, con una tastiera, un registratore e un cane, Olmo. Me lo rubarono. Ero davvero depresso. Leggevo Bukowski perché almeno lui stava peggio di me. Scrivo Miserere e penso che per cantarla ci vuole un tenore».

Pavarotti sembra inavvicinabile, ma lui gli telefona a casa a Modena: «Mi risponde sua figlia, che è una mia fan. Così Luciano mi fa, con la voce impostata: “Ciccio, sei bravo, ti seguo, vieni domani a casa mia, che pranziamo e giochiamo a briscola!”».

Come va il pranzo?, chiede Cazzullo.
«Io preparo tre musicassette di Miserere, cantata da Bocelli. Era febbraio, c’era il camino acceso. Parliamo di cavalli, di tutto, ma non affrontiamo l’argomento. Verso le 4 tento il colpo, ma Pavarotti mi dice che non può. E io: questa canzone la puoi cantare solo tu; se non vuoi cantarla, io la brucio. E la butto nel caminetto. Luciano ci rimane malissimo: “Tu sei matto! E ora come fai a ricordarla?”. “Vedrai che me la ricordo…”. Così accetta. Mi mostra l’agenda e nell’unico giorno dell’anno rimasto libero, il 19 agosto, segna a matita: Zucchero. Pavarotti&Friends, tutto il lato pop di Luciano, iniziò così».

Zucchero ammette però anche che deve il suo successo proprio al fatto di aver lasciato l’Emilia, «che è più cantautorale. In Versilia mi attaccavo al jukebox aspettando che qualcuno mettesse un disco, perché non avevo soldi. E scoprii il rhythm&blues: Otis Redding, Wilson Pickett, Mustang Sally, Aretha Franklin. Così mi innamorai di quella musica».

E la depressione? «Volevo farmi fuori. Stavo malissimo. Attacchi di panico fortissimi, cose che non auguro a nessuno. Prendevo il Prozac ma non sentivo più niente. Dopo “Oro incenso e birra” mi chiamarono prima al Freddie Mercury Tribute, poi Sting, insomma mi sono capitate cose bellissime, ma non me le sono godute. Ero al massimo del successo e non volevo più salire sul palco, non volevo fare la tournée di Miserere: sedici concerti negli stadi. Mi piazzarono dietro uno strizzacervelli. Sono stato l’unico rocker ad andare in tournée con lo psichiatra al seguito. Mi dissero: “Lui ti da la pasticca, e tu suoni”. Se no? “Se no ti ricoveriamo all’ospedale psichiatrico di Pisa, e devi restarci un mese, perché se annulliamo la tournée faranno i controlli”».

Fu decisivo un amico che andò a trovarlo a cena. «Continuava a versarmi una grappetta di Bassano che mi avevano regalato, la scolammo tutta. Alle 4 del mattino dissi: adesso potrei salire sul palco. “Ma sei ubriaco”. Così partii per il primo concerto, con l’accordo che alle 5 del pomeriggio il mio amico avrebbe predisposto il rituale del grappino. Alla terza canzone mi prese l’attacco di panico e volevo scappare. O gettavo la spugna, o mi violentavo. Mi violentai. Cantavo per inerzia. Una parte del cervello si ricordava le parole e cantava, l’altra diceva: che ci faccio qui? Una notte sognai l’intera platea che mi aspettava con le fauci aperte, per sbranarmi. Ci ho messo sei anni a uscirne. Mi sono ricostruito pezzo a pezzo».



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