Russiagate e caso Skripal

E così anche noi, per bocca del premier traghettatore Gentiloni, ci accodiamo al gruppo dei paesi occidentali che puntano il ditino verso le autorità russe, accusate di aver avvelenato su suolo inglese la loro ex spia Sergei Skripal e la figlia Yulia.

Per la verità lo facciamo, oltre che in ritardo (l’originale dichiarazione congiunta di condanna è stata inglese, americana, francese e tedesca), in modo un po’ obliquo: confermiamo la legittimità delle richieste britanniche ad avere risposte da Mosca e condanniamo l’atto. Insomma, non accusiamo direttamente la Russia, ma anche sì. Il famoso “ma anche”. Atteggiamento simile, nota di colore, a quello tenuto da un attore di un certo peso quale è Israele che, sorprendentemente, in questa faccenda si distingue per prudenza. 

 
Il punto è che il club, al quale ci siamo (un po’) iscritti per questa nuova avventura a base di sanzioni, accusa la Russia adducendo motivazioni “altamente probabili”, motivazioni delle quali non ci è dato sapere praticamente nulla. Secondo i britannici il gas che è stato utilizzato è russo, ma le stessa autorità inglesi si rifiutano di fornire campioni per esami da condurre fuori dai laboratori del Regno Unito. E “picche” è stata anche la risposta davanti alla richiesta del console russo di poter far visita alla principale testimone della vicenda, la stessa figlia di Sergei Skripal. Riassumendo: zero trasparenza e plateale inversione dell’onere della prova. 

 

Il punto è che l’iscrizione a questo club diventa quindi sostanzialmente un grosso atto di fede. Verso chi? Bé, anzitutto verso l’MI6, i servizi britannici, e poi verso l’intelligence dei paesi che hanno sottoscritto la dichiarazione congiunta di condanna. Alcune domande: vi ricordate quando Blair dichiarò che Saddam avrebbe potuto colpire Londra in 45 minuti con le armi di distruzione di massa? Vi ricordate le buste post-9/11 all’antrace non made in Irak, ma in realtà made in Usa? Vi ricordate la finta provetta di Colin Powell alle Nazioni Unite? Ecco, ora capite che, più che grosso, l’atto di fede è altamente probabile debba essere abnorme. 

Il punto è che non vi è alcuna certezza neppure circa l’esistenza, e quindi ovviamente l’efficacia, degli agenti nervini “Novichok” menzionati nelle accuse delle autorità inglesi. È quello che per esempio sostiene nel 2016 il dottor Robin Black, responsabile del laboratorio di rilevamento del principale centro di ricerca britannico sugli agenti nervini, il centro di Porton Down. Curiosità: Porton Down si trova a dodici chilometri da Salisbury, luogo dell’avvelenamento di Sergei Skripal e della figlia. 
 
Il punto è che se da parte russa si fosse voluto attentare alla vita dell’ex spia lo si sarebbe potuto fare più facilmente nei sei anni di detenzione in Russia per tradimento. Secondo l’accusa a guida britannica invece le autorità russe avrebbero avvelenato Skripal otto anni dopo averlo graziato e avergli concesso il trasferimento in Inghilterra, a due settimane dalle elezioni presidenziali e a tre mesi dall’inizio dei mondiali di calcio nella Federazione russa. Una mossa assolutamente controintuitiva, se non palesemente masochistica, per un paese che si trova davanti a banchi di prova così rilevanti per il suo prestigio internazionale. Il tutto peraltro in un contesto popolare e talvolta politico che dall’Europa, all’estremo Oriente, agli Stati Uniti manifesta tendenze di appeasement con Mosca non insignificanti.
 
Il punto è proprio che anche a Washington sta accadendo qualcosa. Il segretario di Stato Rex Tillerson si è beccato l’epico You’re fired di Trump esattamente il giorno dopo le sue esternazioni accusatorie verso la Russia sul caso Skripal. I maligni dicono che abbia appreso di essere stato scaricato direttamente da Twitter. Fatto sta che, anche se le divergenze col presidente (più o meno costruttive) portavano già da mesi a pensare ad un licenziamento, la tempistica non è casuale. È pur vero che il subentrato Mike Pompeo non possa iscriversi certo nella lista degli amici del Cremlino, anzi. Ma in fondo, tra i papabili, chi poteva farlo? Così come è altamente probabile che la tecnica di Trump per mantenersi in sella a quell’intricatissimo carrozzone chiamato amministrazione americana stia nel classico “licenzia et impera”. Il prossimo? Il National Security Advisor H.R. McMaster. Fidatevi. Un insider vicino a Trump come Ted Malloch lo bolla come “una talpa di Soros”. E come sapete George Soros non è grande amico neppure di Vladimir Putin. Staremo a vedere. 

 
Il punto è che, da ancor prima di prestare giuramento, Trump si porta sul groppone quella cosa chiamata Russiagate. E quando si parla di questo dossier il nome che salta fuori è ovviamente quello del suo principale redattore, l’ex agente dei servizi britannici Christopher Steele. Guarda caso amico di Skripal. È proprio a Salisbury che Skripal era entrato in contatto con la Orbis Business Intelligence di Christopher Steele, frequentando assiduamente, stando a quanto riporta il Telegraph, un consulente per la sicurezza della Orbis.    
 
Il punto è che tenendo presente l’incrocio internazionale di Salisbury le accuse britanniche assumono solo parzialmente il sapore russo. Per l’altra metà la strada porta a Washington, nella Washington di Donald Trump, quella che nonostante i mixed results e le sanzioni (controvoglia) sembra non voler voltare le spalle a Mosca, nel nome di un progetto di ordine mondiale fondato sull’equilibrio di potenza, un ordine dove anche la Federazione russa deterrebbe un ruolo decisivo. Come in Egitto, ad esempio, dove lo scorso 28 novembre la Russia firmò una bozza di accordo per consentire a Mosca e al Cairo l’utilizzo delle basi aeree della controparte. Forse che anche Theresa May, puntando il dito, stia cercando un ruolo (post-Brexit) per la Gran Bretagna in questo riassetto globale, magari proprio in Medio Oriente? Forse che per capire il caso Skripal occorra riprendere in mano il manuale di storia al capitolo sulla crisi di Suez del ’56? 

 
Il punto è anche che in Gran Bretagna in questo periodo vi sono notizie messe in secondo piano proprio dal ditino puntato verso la Russia. Come il lievitare dei costi della Brexit. O come quello che si profila essere uno dei più grandi scandali di pedofilia della storia. Nei media italiani solo Evgeny Utkin lo ricorda (15 marzo, TGCom24). Secondo un’indagine del Sunday Mirror nella cittadina di Telford oltre mille persone avrebbero subito abusi dagli anni ’80 ai giorni nostri, e vi sarebbero stati addirittura omicidi. Il tutto orchestrato da una gang pakistana, con la copertura delle autorità locali. 
 
I punti sono tanti, tutti possibili. Alcuni probabili, altri altamente probabili. Se volete, più diplomaticamente, non chiamiamoli punti ma prudentemente puntini. E forse non resta che unirli.