8 settembre: Reggio e la difficile scelta della libertà

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di Ferruccio Del Bue

Poco più di un mese prima dell’armistizio, correva il 25 luglio del 1943, anche Reggio Emilia si era scoperta ricca di spirito antifascista.

Al posto de “Il Solco Fascista”, il quotidiano del Pnf, apparve la testata “Il Tricolore”. La città emiliana si era rinnovata di vita democratica. Molti esponenti dell’anti-regime avevano scelto di fare ritorno a Reggio, chi dall’estero e chi uscito dal carcere, mentre nei primi giorni del gran caldo del mese di quel lontano agosto prese vita il Comitato d’intesa patriottica.

La riunione costitutiva si tenne presso lo studio dell’avvocato comunista Giannino Degani e vi parteciparono: il compagno di partito Aldo Magnani, i socialisti Nino Prandi, Angelo Mazzini e Amilcare Storchi, padre Placido da Pavullo per la componente Cristiano sociale, infine Vittorio Pellizzi, indipendente e poi azionista.

Vittorio Pellizzi, prefetto della liberazione a Reggio Emilia

Il nuovo organismo ebbe vita breve, appena poco più di un mese. L’ultima riunione del Comitato d’intesa patriottica, infatti, si tenne solo poco tempo dopo, il 2 di settembre, nel convento dei cappuccini, in pieno centro storico.
Cesare Campioli, il futuro sindaco della liberazione, ebbe a ricordare in seguito che proprio da quel Comitato, “un po’ informe e ancora incompleto, nacque il Cln”.

Il comunista Cesare Campioli, primo sindaco di Reggio Emilia dopo la liberazione

La storia tuttavia decretò che, con l’armistizio dell’8 settembre del 1943, anche a Reggio Emilia si dovesse ritornare daccapo. Al punto di partenza.
Così i fascisti si riaccasarono nei palazzi del Comune e della Provincia. E allo stesso tempo si reimpossessarono del loro organo d’informazione quotidiana, che riprese la pubblicazione con l’originario nome “Il Solco Fascista”.
La prova di restaurazione fu lanciata, ma l’8 di settembre rimase comunque una data spartiacque dalla quale non si poté più prescindere. Nonostante tutti i tentativi compiuti per rianimarlo, il vecchio fascismo era davvero morto il 25 luglio, quando il dittatore, caso se non unico quantomeno raro nella storia, fu messo in minoranza dal Gran consiglio che lui stesso aveva nominato.

Ragione per cui l’8 di settembre continuerà a rimarcare nella storia una differenza sostanziale tra il prima e il dopo: l’Italia fu invasa dall’esercito tedesco, ma ciò che venne tenuto in vita del vecchio regime non fu altro che una caricatura tinta di slogan sbiaditi, che risuonarono con note repubblicane e punte d’orientamento politico vagamente socialistico. Dietro quella maschera, però, ci fu il nazismo imperante a farla da padrone.

Funerale fascista sfila davanti alla Prefettura, nella Reggio occupata dai nazisti

Fu quella un’Italia che, più che divisa, si risvegliò spaccata in due. La rottura operata dal Gran consiglio del fascismo non fu solo di vertice, ma coinvolse tutti gli italiani. La maggior parte di chi aveva davvero creduto nell’ideologia del ventennio, mosse allora rapidissimi passi in avanti per prenderne le distanze. Tre anni di guerra, infelicissimi, si fecero sentire con tutto il loro peso. L’avventuristica spedizione in Russia, i bombardamenti, la fame e la miseria dilagante, spazzarono via ogni parvenza di ideale. Gli italiani, molto probabilmente, ebbero ad accorgersi d’un sol colpo, di avere sperimentato su loro stessi la filosofia spiccia di San Tommaso: prima di aborrire la guerra, l’avevano voluta vedere, toccare, fino a provarla sulla loro pelle.

Di certo si può dire che l’Italia del 1943 non fu più l’Italia fascista e neppure quella mussoliniana. Lo Stivale era in quel momento un Paese fiaccato dalla stanchezza, divorato dalla paura. L’unica cosa che da ogni parte si chiedeva era la pace, anche se i nazisti invasero in un lampo la Penisola, senza trovare troppi ostacoli.

E anche a Reggio Emilia l’occupazione tedesca fu rapida. Per la verità un tentativo di resistenza lo effettuò qualche militare alla Caserma Zucchi, dove si registrarono 5 morti, fra gli italiani. Mentre a Gattatico, nella Bassa reggiana, Giovanni Magrini, un giovane carabiniere che prestava servizio nella locale caserma, resistette all’urto dei tedeschi, uccise un ufficiale, e contribuì a respingere l’assedio. Il militare dell’Arma, per questa azione di coraggio e di guerra, si meritò la prima decorazione al valore militare: gli venne conferita la medaglia d’argento.

In seguito giunse il momento dello sbandamento e dei primi focolai di resistenza. Subito dopo l’8 di settembre e l’occupazione nazista, venne alla luce un periodico: “I Fogli Tricolore”, testata caratterizzata da 2 segni a pastello, un tratto verde e uno rosso, ragione del nome di quel ciclostilato clandestino e distribuito a mano, con il porta a porta, da un gruppo di giornalisti e attivisti antifascisti.

E’ la mattina del 28 dello stesso mese di settembre, quando, appena sconfinati nella stagione dell’autunno, nella canonica di San Francesco, in pieno centro storico, venne costituito il Comitato nazionale di liberazione reggiano.
A quel primo incontro presero parte il comunista Cesare Campioli (nome di battaglia da partigiano, Marzi), che sarà poi il sindaco di Reggio Emilia dal 1945 al 1962, don Prospero Simonelli (Reggiani) e Pasquale Marconi (Franceschini) per la componente cattolica, Giacomo Lari (Ariosto) e Alberto Simonini (Rossi) per i socialisti e Vittorio Pellizzi (Fossa) per gli azionisti, quest’ultimo futuro prefetto della liberazione di Reggio Emilia, in carica dal 25 aprile del 1945, al 28 febbraio del 1946.

Il socialista Alberto Simonini

In quella prima riunione si verificò subito un episodio che esprime a pieno i complicati, e a volte contradditori, elementi della specificità reggiana. Nella fase costitutiva del Cln, rifacendosi alla loro fede prampoliniana, vissuta all’insegna di un socialismo pacifista, i socialisti si dissero contrari all’uso delle armi, proponendo indefinite e non ben chiare azioni di sabotaggio. E fu per questo motivo che entrarono in rotta di collisione con i comunisti, ma pure con gli azionisti e perfino con i cattolici.
Don Prospero Simonelli, infatti, in quel frangente, sposò la tesi che alla guerra si deve rispondere con la guerra.

Già dalle prime uscite, dunque, si evidenziarono le differenze di vedute tra le diverse anime politiche che andavano a comporre il neonato Cln e che continuarono sia per il corso della guerra sia nel dibattito post liberazione.
Vittorio Pellizzi (Fossa), l’azionista e futuro prefetto, precisò che l’obiettivo da conseguire doveva essere esclusivamente di combattere per la libertà, abbandonando così le finalità politiche dei diversi partiti.

Il Partito comunista, dal canto suo, si presentò da subito il più preparato e pronto a sostenere la lotta. Cesare Campioli, che si dichiarò d’accordo sugli obiettivi immediati esposti dall’azionista Vittorio Pellizzi, puntualizzò e spiegò che il Pci stava già trasformando i Gruppi sportivi nelle Gap (Gruppi d’azione patriottica). L’esponente comunista aggiunse poi qualche precisazione sui metodi di conduzione della lotta armata. Rilevò la necessità di agire in cellule composte da 3 persone, in modo che solo quelle indicate si conoscessero tra di loro. Ciascuna delle cellule, poi, avrebbe avuto il compito di generarne altre, e queste, altre ancora, e così via.

Il cattolico montanaro Pasquale Marconi assunse una posizione diversa da quella di Cesare Campioli e Vittorio Pellizzi. In particolare in merito all’accenno fatto dall’azionista e futuro prefetto sull’opportunità di ricorrere a qualunque mezzo per raggiungere gli scopi prefissati, il prossimo deputato della Democrazia cristiana esternò e obiettò la sua avversione per gli attentati consumati contro le singole persone.

Pranzo dall’onorevole della Dc Pasquale Marconi (al centro) con il cardinale Gilbert

Trascorsi molti anni da quell’incontro avvenuto nella chiesa di San Francesco, in un clima politico completamente mutato, Pasquale Marconi precisò che si era detto contrario agli attentati personali, perché quel tema doveva tornare d’attualità qualche mese dopo la formazione del Comitato di liberazione, quando i Gap cominciarono ad agire “di loro iniziativa, fuori dalle direttive, e quindi anche dalle responsabilità del Cln”.
Naturalmente dello stesso avviso di Pasquale Marconi fu anche don Prospero Simonelli, che spiegò come i cattolici non potessero accettare una strategia del “colpo di mano”.

In questa primissima discussione, dunque, evidenziò don Prospero Simonelli, da una parte affiorò subito il diverso atteggiamento dei comunisti, “molto facili e pronti a giustificare ogni gesto rivoluzionario e impazienti di dare sfogo a risentimenti covati per lunghi anni”, dall’altra, la posizione dei cattolici, sempre tentati dal “legittimismo” e preoccupati dagli aspetti “morali di una lotta che presentava indubbi motivi di incertezza” (in Origine e atti costitutivi del primo Cln provinciale di Reggio Emilia).

Nella sostanza gli esponenti cattolici erano ancorati a una posizione attendista, mentre i comunisti (la forza più organizzata, come ammisero anche gli stessi democristiani), assieme agli azionisti, mordevano il freno.

Pensavano in sintesi che si dovesse agire subito, senza attendere la primavera, periodo in cui avrebbero dovuto essere costituite le formazioni in montagna, le Sap (Squadre d’azione patriottica). Ancora, invece, era tutto da chiarire il ruolo del Partito socialista, che, come abbiamo già detto in precedenza, dapprincipio scelse una posizione pacifista, rifiutando di fatto la lotta armata. Le cose poi cambiarono di lì a breve, quando Camillo Ferrari entrò in seno al Cln, prendendo il posto di Alberto Simonini (quest’ultimo trasferito a Bologna), e venne affiancato dall’esterno da Gino Prandi e da Giacomo Lari.

Questo duplice atteggiamento che ebbero i socialisti nei confronti della resistenza, fu dovuto alla divisione che attraversò il partito e che vide i militanti schierarsi su due posizioni: la prima linea fu quella dei cosiddetti legalitari per principio, cioè coloro che volevano astenersi dalla guerra, mentre la seconda, completamente opposta, fu quella caldeggiata da Giuseppe Romita, il quale, dopo essere stato eletto segretario del partito clandestino, chiese ai socialisti un’adesione attiva ai Cln e quindi anche alla resistenza.

Per quanto riguarda il Psiup, inoltre, bisogna ricordare che, nella realtà del tempo, i socialisti subirono una costante emorragia di consenso verso i comunisti. Di fatto la vecchia militanza riformista era ormai in larga parte confluita nel Pci, l’unico partito in grado di organizzarsi nella clandestinità.

Nelle campagne reggiane si verificò così il passaggio nelle file comuniste di intere famiglie contadine che avevavo radici e vecchie tradizioni prampoliniane, basti, a questo proposito, citarne una per tutte: quella dei Cervi. Le case dei socialisti si trasformarono in un punto d’appoggio per il Pci. In alcune di queste si stampò anche l’Unità clandestina. E in vari periodi vi trovarono ospitalità Giancarlo Pajetta, Teresa Noce, Giovanni Roveda e Giorgio Amendola.

Teresa Noce è stata una partigiana, politica e antifascista italiana. Morta a Bologna nel 1980

Il Comitato di liberazione di Reggio Emilia, dunque, iniziò a muovere i propri passi a rilento. Doveva fare fronte alle diverse posizioni dei partiti che lo componevano e che avevano aderito alla resistenza, cercando di risolvere, in primis, le difficoltà che si presentarono al momento di costituire le formazioni armate.

Alla fine del mese di settembre gli inquadrati nei Gruppi sportivi, che già si iniziarono a chiamare Gap, erano un numero che oscillava tra i 300 e i 400. Anche se alcuni studiosi sostengono che le cifre riportate da Gismondo Veroni si esprimessero in quantità piuttosto abbondanti, ottimistiche.

A organizzare i neonati gruppi furono tre esponenti comunisti: Alcide Leonardi (D’Alberto) che operò in città, Osvaldo Poppi (Davide), attivo nella zona che va dalla via Emilia fino alla montagna, Gismondo Veroni (Tito), sulla direttrice che va dalla via Emilia al Po. I primi a essere designati per le azioni sul campo furono “25-30 gappisti autentici” (i Gap saranno organizzati in brigata nel marzo del 1944: prima sottoposti al comando militare del Cln, poi Comando Piazza. Al comando della famosa 37esima brigata Gap si alternarono nomi celebri a Reggio Emilia: Gino Iotti (Vladimiro), Alfredo Casoli (Robinson), i commissari politici Aldo Ferretti (Werter), Fausto Pataccini (Sintoni) e Orfeo Becchi (Gaeta).
Ma presto, in seguito al trasferimento di Osvaldo Poppi a Modena, l’organizzazione dei Gap (via Emilia-montagna) passò sotto l’egida di Vivaldo Salsi (Montanari prima e poi Tancredi).

Al centro il comandante partigiano Osvaldo Poppi (Davide), nato a Reggio ed esponente di spicco della Resistenza modenese ed emiliana

Nella zona di D’Alberto, quella di Reggio città, furono costituiti gruppi attivi in quei luoghi in cui pulsava il cuore operaio: alle Officine Reggiane, nel quartiere di Santa Croce, in quello di Villa Ospizio, alla Lombardini Motori, fino a spingersi alla frazione periferica di Villa Cavazzoli.

Nella zona di Vivaldo Salsi (Montanari/Tancredi), quella che va dalla via Emilia alla montagna, i gruppi furono attivati a San Maurizio (alla prima periferia cittadina), Villa Rivalta, Puianello, Cavriago, Scandiano e altrove. Ma il nucleo più forte era di certo quello di Rivalta.

Infine, nel territorio di Gismondo Veroni (via Emilia e giù nella Bassa), nacquero formazioni a Villa Sesso, Pratofontana, Villa Gavassa, Massenzatico, Villa Cella e contemporaneamente nei comuni di Correggio, San Martino in Rio, Rubiera, Campegine, Novellara, Bagnolo, Guastalla, Sant’Ilario d’Enza e Poviglio.

Cominciarono qualche mese dopo le prime vere azioni dei partigiani: quelle a cura delle cellule gappiste in pianura e di qualche altro sporadico gruppo slegato che operava sull’Appennino, fra questi, per esempio, si distinse la formazione composta dai fratelli Cervi.

La famiglia Cervi

Ma questa è già un’altra storia.

(Prima foto in alto, sfilata del Cln provinciale: da sinistra Gino Prandi, Camillo Ferrari, Ivano Curti, Aldo Magnani, Vittorio Pellizzi. Fototeca biblioteca Panizzi – Renzo Vaiani, Reggio Emilia, 1947)