Ottava lettera alla comunità in tempo di Covid

icona (2)_new

“Niente sarà come prima”, ci viene detto un po’ ossessivamente da tutte le parti. Ora, è vero che questa clausura è stata l’occasione per riscoprire lo stare insieme, il parlarsi tra sposi e tra genitori e figli; ma un po’ di pessimismo leopardiano mi porta a diffidare. Per esempio, non sono convinto che crescerà la solidarietà internazionale e potranno innescarsi meccanismi di selezione, secondo il terribile proverbio, citato anche da Gesù, “a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.

E’ vero, però, che alcune esperienze che abbiamo fatto in questi mesi rappresentano una grande occasione.

Per esempio, il valore e il peso delle parole.

Senza il silenzio, le parole rischiano di diventare vane, senza consistenza, fastidiose.

Vi scrivo all’inizio del mese di maggio e penso che proprio Maria ci dia l’esempio. Dice il Vangelo: “Maria custodiva tutte queste cose (letteralmente: queste parole), meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19; anche Lc 2,51). Il silenzio di queste settimane è servito da “setaccio”, per conservare le parole importanti.

Non basta: queste parole importanti hanno bisogno di tempo, per scendere nel “cuore”, dove sono conservate, ma anche approfondite, per ricavare sempre nuova ispirazione.

Questo vale massimamente per le parole del Vangelo. Un esempio, l’abbiamo questa domenica, che ci presenta l’immagine, notissima, del Buon Pastore. Si dice però anche che Gesù è la porta delle pecore. Pastore e porta, dunque. Che cosa può significare?

La porta rappresenta la via obbligata: non si entra nella vita se non attraverso Gesù, la sua parola, la sua persona. Con quale diritto pretende questo? Lo dice poco più avanti: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore” (10,11). Che cosa vuol dire questo, per me? Forse, non ho ancora preso una decisione chiara e coerente, mi lascio sedurre da attrattive superficiali, ho paura di dire di sì a un amore così grande.

L’immagine del pastore, invece, suggerisce il movimento, il camminare, ascoltando la voce, quella voce che conosciamo, perché già l’abbiamo sentita. Ci viene proposta una nuova libertà: non la libertà del perdersi, del vagare, delle esperienze inconcludenti, una libertà che ha come esito la solitudine e spesso anche la dipendenza dagli idoli del mondo. La libertà del cristiano è l’incontro col pastore, il dialogo continuo con lui, con quella voce che conosciamo, perché il Battesimo ci ha aperto le orecchie; libertà è il coraggio di osare decisioni difficili, perché egli ci ripete: “Non temere, io sono con te”. Libertà è il consegnare la propria vita nelle sue mani, il vivere la morte come l’ultimo e pieno incontro.

Dunque, le parole del Vangelo “rimangono”: Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che vorrete e vi sarà fatto” (Gv 15,7).

Un consiglio: quando leggete il Vangelo, lasciate che la parola scenda in profondità, pensando che è stata pronunziata e scritta per voi. Non affrettatevi a chiedervi, che cosa dovete fare, ma assaporate la gioia di sentire che nella sua parola c’è Lui, c’è la sua presenza dolcissima. Siate come le pecorelle, che riconoscono la voce del pastore, che sanno di essere conosciute, che si affidano alla sua mano.

La Vergine Maria ci assista. Comincia oggi il suo mese. La sua maternità è stata pagata a caro prezzo sotto la croce del Figlio. E’ lì, che ha ricevuto la sua missione, verso Giovanni, che però rappresenta tutti noi: “Donna, ecco tuo figlio!”. Lei ha preso sul serio questa maternità. Amo vederla rappresentata, come per esempio da Piero della Francesca, nell’immagine della Madonna del popolo: sotto il suo grande manto accoglie e protegge coloro che si affidano a lei.