Il martirio di Piccinini, come Matteotti

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Nella Reggio socialista e prampoliniana del secondo decennio del Novecento, si distinse un giovane tipografo che, per convinzioni politiche e caratteristiche umane, rappresentò l’unica vera alternativa al riformismo dei padri fondatori del partito. Quel giovane rispondeva al nome di Antonio Piccinini, classe 1884. Antonio aveva aderito al PSI poco prima del 1914, lavorando presso la redazione de La Giustizia. Radicalmente contrario alla Prima guerra mondiale, condivise il suo antimilitarismo con i giovani della FIGS e in particolare con Alberto Simonini.

Giudicò ambigua e rassegnata la posizione adottata dal partito contro l’entrata in guerra dell’Italia nella Prima guerra mondiale, che si riassumeva nello slogan “Né aderire, né sabotare”. Caldeggiò invece la proposta di Simonini e della FIGS di proclamare lo sciopero generale.

Nel corso di un’assemblea nel novembre 1916 espresse di nuovo le sue critiche al tiepido pacifismo di Turati e Prampolini, che a suo dire rasentava il collaborazionismo. Il suo antimilitarismo e il suo comportamento politico rigidamente classista raccolsero un vasto consenso, che apparve evidente al Congresso provinciale del 28-29 giugno 1919 a conclusione del quale fu eletto segretario della Federazione. Ciò avvenne in realtà in un quadro politico generale fortemente influenzato da quanto stava accadendo in Russia e che lacerava l’unità del partito. I principali referenti massimalisti provinciali furono Domenico Cavecchi, Giuseppe Zanfi, Enrico Corradini, Zaccarelli e Mussini.

La pesante crisi economica del dopoguerra, gli scioperi indetti da molte categorie di lavoro e la delusione dei reduci che vedevano svanire tutte le promesse loro fatte dal governo alla vigilia della guerra, si tradussero in un semplice grido ad un tempo di speranza e di disperazione: “Fare come in Russia”.

Il 4 gennaio 1920 in una sala della Biblioteca Popolare si svolse il primo Convegno provinciale della frazione massimalista, nel corso del quale Piccinini espresse pesanti critiche nei confronti del gruppo parlamentare, sostenendo che “il socialismo non poteva essere considerato solo sotto un profilo economico e istituzionale, mirante alla semplice razionalizzazione dell’economia capitalistica”. Egli lo intendeva invece “materiato e sorretto di una grande idealità”, poiché è “l’ideale che entusiasma i giovani e le folle al socialismo e non la miserevole questione utilitaristica”.

Piccinini non fu però un estremista e un avversario settario del riformismo dei padri fondatori, come dimostrano i suoi continui rapporti di stima e collaborazione con Prampolini e la collaborazione a La Giustizia. Per questo egli non volle mai abbandonare la “vecchia casa socialista” come invece avevano già in cuore di fare i “comunisti puri” (Gramsci, Terracini, Tasca, Togliatti, Bombacci e Bordiga). Piccinini inoltre non si dimostrò affatto convinto che la situazione economico e sociale della Russia fosse paragonabile a quella italiana e quindi potesse essere semplicemente ripetibile.

Non a caso la sua frazione si denominò “Comunista unitaria”. Quella sua determinazione di non abbandonare il PSI risentì probabilmente anche dell’insegnamento di Prampolini che affermava “Uniti siamo tutto, divisi siamo niente”.
La maggioranza conquistata dai massimalisti al congresso provinciale del 1919, durò poco tempo per soccombere a quello successivo del 25-26 gennaio 1920, quando i riformisti tornarono, seppur in virtù di una maggioranza risicata di soli 259 voti, alla guida del partito. Il progressivo diffondersi dell’internazionalismo in città e in provincia ebbe un significativo riscontro però al XIV Congresso provinciale della Federazione giovanile socialista reggiana nel giugno 1920, quando i massimalisti di Zaccarelli si affermarono con 2160 voti contro i 1298 dei riformisti.

Seppur criticato dai riformisti per le sue posizioni tendenzialmente rivoluzionarie, fu chiamato ugualmente a far parte dell’Unione socialista comunale. Nell’agosto del 1920, grazie alle sue indubbie capacità organizzative, fu inviato dalla Direzione nazionale a Benevento per riorganizzare il partito in quella terra. Quando dunque iniziò l’occupazione delle Officine Reggiane, Piccinini era ancora lontano dalla sua città, anche se pur essendo lontano seppe sostenere i suoi compagni in lotta.

Le elezioni amministrative dell’autunno 1920 videro Piccinini eletto Consigliere provinciale e successivamente assessore. Il 10-12 ottobre 1920 nacque a Reggio la frazione di “Concentrazione” (riformisti) del PSI che votava una mozione favorevole all’unità del partito. Lo stesso fece quella “comunista unitaria” il 20-21 novembre a Firenze. Ciò sta a dimostrare quanto l’unità del partito fosse da tutti apprezzata e considerata indispensabile per raggiungere nuovi obiettivi politici.
Il 28-29 novembre, invece, si costituì a Imola la frazione “comunista pura”, che propose di cambiare nome al PSI in quello di Partito comunista d’Italia e l’espulsione dei concentrazionisti.

Le vicende che portarono alla scissione di Livorno furono vissute molto intensamente da Piccinini. La posizione da lui assunta, infatti, fu sempre contraria a qualsiasi espulsione e sempre favorevole a mantenere l’unità del partito, anche in presenza di profonde diversità politiche. Per questo Piccinini al congresso di Livorno del 1921 scelse di restare nel PSI.

Nell’agosto dello stesso anno lasciò Reggio per Parma perché minacciato dai fascisti locali. Ritornato a Reggio nel 1923 assunse l’incarico di segretario provinciale del PSI (massimalista), che stava sempre più assottigliando le sue fila, perdendo aderenti a destra verso il PSU e a sinistra verso il PCd’I.

Con le elezioni politiche alle porte e previste per il 6 aprile 1924, Piccinini che con Nenni contrastò l’alleanza con i comunisti, risultò candidato nelle liste del PSI. Da quel momento iniziò la fase più dolorosa e tragica della sua vita politica. La sera del 28 febbraio 1924 fu prelevato, alla presenza della moglie e delle due figlie, dalla sua abitazione da alcuni fascisti, spacciatisi per compagni, con la scusa di un invito ad un incontro fra compagni presso la sede della Giustizia. Come probabilmente aveva già compreso, venne trascinato in un campo poco distante da casa e barbaramente ucciso con alcuni colpi di pistola alla schiena.

Il tragico fatto destò grande scalpore in tutta l’opinione pubblica, anche in quella non socialista. La Giustizia settimanale ricostruì tutta la dinamica dell’assassinio in un artico del 9 marzo 1924 intitolato “L’assassinio di Antonio Piccinini”.

Il segretario nazionale del PSI Tito Oro Nobili, convocò immediatamente l’Esecutivo nazionale per affidare a Pietro Nenni, che si era offerto spontaneamente per l’amicizia che lo legava a Piccinini, una accurata ricostruzione dei fatti. La Direzione poi decise di riversare sul nome del martire tutti i voti della sua circoscrizione. Piccinini quindi venne eletto deputato post mortem.

I nomi dei sicari fascisti erano noti a tutti. Il 12 ottobre 1925 ebbe inizio il processo contro quattro fascisti fortemente indiziati: Calvi, Notari e i fratelli Bonilauri. Con la sentenza pronunciata il 20 ottobre 1925 la corte assolse i fratelli Bonilauri e con formula dubitativa Calvi e Notari. Il processo venne rifatto nel 1950, ma anche in quella circostanza il verdetto fu lo stesso.

Nella seduta del Parlamento del 30 maggio 1924, convocata per convalidare i nomi degli eletti, Giacomo Matteotti, come è noto, prese la parola per denunciare i tanti brogli, le intimidazioni e violenze che avevano insanguinato la campagna elettorale e richiese l’annullamento delle elezioni. In quella occasione non dimenticò di ricordare anche l’omicidio del candidato Antonio Piccinini, avvenuto proprio in campagna elettorale. Per questo suo atto d’accusa anche Matteotti poco tempo dopo sarà sequestrato e assassinato dai fascisti.