Covid, gioco e identità

Don Giuseppe Dossetti

Siamo ormai alla fase due della crisi legata al coronavirus, non soltanto perché ci si aspetta una seconda ondata di contagi: sta cambiando l’atteggiamento della gente verso l’epidemia. Era prevedibile, ma è un po’ deludente. È iniziata la fase della negazione: “Il virus non c’è più o, almeno, vogliamo vivere come se non ci fosse; e se qualcuno si ammala, la cosa non ci riguarda”.

L’appello, “Nulla sarà come prima”, viene bellamente ignorato, anzi, si cerca di ritornare proprio ai comportamenti di prima, e chi si oppone viene considerato – come Cassandra – un uccello del malaugurio e un nemico della pubblica felicità.

È interessante che l’oggetto, sul quale ci si accapiglia, sia il gioco, il divertimento. Ci si aspetterebbe piuttosto un dibattito serio sul lavoro e sulla scuola, piuttosto che sulle discoteche.

Il moralista può considerare stupido questo comportamento. Preferisco seguire la lezione di Pascal, che sostiene che dietro a un comportamento apparentemente stupido c’è sempre un problema umano serio. Pascal applica questo metodo proprio al gioco, come “distrazione”, come un modo per evitare domande alle quali non si sa rispondere e per questo sono dolorose.

La domanda in questione oggi mi sembra quella sull’identità: “Chi sono io?”. Il virus ci costringe a chiedercelo con una serietà alla quale non eravamo abituati. Per questo è molto interessante il dialogo tra Gesù e Pietro nel vangelo di Matteo (16,13-20). Il tema è esattamente quello dell’identità.

Gesù chiede ai discepoli: “La gente, chi dice che io sia?”. Gli apostoli sono ben informati: Gesù è un grande profeta. Ma dopo un profeta ne viene un altro, anche lui, come i precedenti, vox clamantis in deserto. Elia, Geremia, Giovanni il Battista hanno creato un po’ di sconquasso, ma poi il mondo si è rimesso ad andare come prima.

“Ma voi, chi dite che io sia?”. Simone risponde: “Tu sei il Cristo”, cioè l’ultima e definitiva parola del “Dio vivente”. Non si può scherzare con te, cercare un compromesso. Tu ci costringi a essere onesti con noi stessi, a non fuggire da un sì o un no alla tua persona.

L’onestà di Simone viene premiata da Gesù. L’apostolo ha detto chi è Gesù per lui; Gesù gli dice chi è davvero Simone, da quel momento: “Tu sei Pietro”.

Gesù non dice a Pietro che cosa succederà della sua vita e nemmeno lo dice a noi. La nostra libera responsabilità rimane integralmente. Gesù dice, invece, che Pietro è “pietra”, stabilità. Neppure “le porte dell’inferno” potranno scuotere questo fondamento.

Viene premiata l’onestà di Pietro. Dal Vangelo conosciamo le sue crisi, il suo rinnegamento, le sue paure. Però c’è una stabilità di fondo che non potrà essere messa in discussione: è il suo rapporto con Gesù e, per il suo tramite, con Dio. Chiedere a Gesù chi siamo noi, non ci risparmia la ricerca, la crisi, l’errore. Solo che, in ogni circostanza, anche di fronte alla sofferenza e alla morte, la sua voce ci ripete: “Io sono con te”.

Questa certezza ci rende liberi. E, aggiungo, anche seri. Non abbiamo bisogno di giocare. Ciascuno ha il suo gioco: i ragazzi hanno la discoteca, ma si può “giocare in Borsa” e anche la politica può essere un gioco. Addirittura, c’è chi si appassiona al gioco della guerra.

Il virus vorrebbe ricordare che c’è un partita più impegnativa, la ricerca della nostra comune identità di uomini. Da questo punto di vista, come i flagelli biblici, potrebbe essere un richiamo provvidenziale a rientrare in noi stessi, a ritrovare la verità e la bellezza dell’uomo.