Chi ha paura di Gesù Bambino?

don Giuseppe Dossetti Centro Giovanni XXIII Reggio Emilia

Chi ha paura di Gesù Bambino? Sembra una domanda stupida, ma me la sono portata dietro in questo periodo natalizio, perché mai come quest’anno mi è sembrato che si volesse evitare di parlare di lui, addirittura di nominarlo. Da tempo, nelle scuole la natività viene troppo spesso sostituita da Babbo Natale e simili, e il presepio è lasciato all’iniziativa privata. Ma questa volta mi ha colpito il cambiamento del lessico. Non ci si augura più il “Buon Natale”. In effetti, se è Natale, vuol dire che qualcuno è nato, e così lo si dovrebbe nominare e si dovrebbe spiegare dove e quando questa nascita è avvenuta. Meglio, allora, augurarsi “Buone Feste”, un saluto molto neutrale, perché ciascuno festeggia ciò che vuole e come lo vuole.

La cosa, tuttavia, non è nuova. Anche Erode temeva questo bimbo sconosciuto, la cui nascita gli era stata annunziata dai Magi. Lo considerava talmente pericoloso da organizzare una strage, un pogrom, per toglierlo di mezzo. La liturgia della Chiesa mette bene in luce questo paradosso: “Hostis Herodes impie – Christum venire quid times? – Non eripit mortalia – qui regna dat caelestia”, “Perché temi, Erode, – il Signore che viene? – Non toglie i regni umani – chi dà il regno dei cieli”.

Qualcuno dirà che la colpa di questa censura è della stessa Chiesa, troppe volte incoerente con il messaggio di mitezza, povertà e umiltà che viene da Betlemme, al punto da essere accusata di ipocrisia. Qualcosa di vero c’è, in questa critica. Ma in nome di che cosa critichiamo, se non in nome di quel Bambino? Scrive A. Dettwiler, uno scrittore evangelico: “Certamente, la Chiesa ha tradito più volte il messaggio di Gesù. Ma essa si è sentita responsabile di trasmettere i testi del Nuovo Testamento. Senza di lei, Gesù e il suo messaggio provocativo sarebbero caduti nell’oblio. Così, la Chiesa , nello stesso tempo, opera una memoria che la mantiene in vita e riceve una parola che la mette continuamente in discussione. Essa è fedele alla sua vocazione quando accetta di portare e di sopportare nel suo seno il principio della contestazione di se stessa”.

Il messaggio del Natale, dunque, affascina e inquieta: inquieta proprio perché affascina. In sostanza, ci dice che Dio ci ama e che, nonostante tutto, non si è stancato di noi. Qualcuno reagirà come Adamo, che ritiene di non aver bisogno di essere amato e considera la religione un vincolo intollerabile per la sua libertà: “Sii il dio di te stesso!”, è l’invito del Tentatore. Mi chiedo: non sarà forse questa la radice della violenza crescente che c’è nel mondo? Perché Caino, figlio di Adamo, continua a uccidere Abele?

Qualcuno, però, trova ancora in quel messaggio la risposta alla sua ricerca. Si tratta dei poveri, ma anche dei veri sapienti, che riconoscono la propria povertà. Essi sono scesi dalle torri del loro sapere, ne hanno misurato l’impotenza a risanare il male dell’uomo. Hanno capito che non bastano i buoni propositi, la tensione della volontà, la nobiltà degli obiettivi: il male è più profondo ancora e l’unica parola che può consolare e liberare è la parola “grazia”, il dono immeritato, da parte di Uno, che ha preso su di sé il male di tutti. Anch’io ho un sogno: un grande corteo, che riempia gli otto chilometri che separano Gerusalemme da Betlemme, nel quale ci siano tutti, anche i sacerdoti che, interrogati da Erode, leggono le Scritture, ma che sono ciechi e sordi quando esse si compiono, e, insieme a loro, anche il patriarca Kirill e tutti coloro che predicano la guerra santa. Vorrei che ci fosse anche Erode, liberato dalla smania per il potere. Vorrei vedere uno accanto all’altro Putin e Zelenskyj. Vorrei che ci fossimo tutti noi: quel Bambino in una mangiatoia ci ricorda la sofferenza del mondo e la nostra responsabilità di esprimere la nostra gratitudine nell’umile servizio alla vita.