“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”

Il Vangelo della domenica

Festa di Tutti i Santi e Commemorazione dei Fedeli defunti, 1-2 novembre 2018

Dal vangelo secondo Matteo (Mt 5,1-12)

In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male
contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei
cieli».

 

Si potrebbe pensare che nella festa di tutti i Santi la Chiesa celebri i suoi eroi sconosciuti, e in effetti c’è nella liturgia un sentimento di gratitudine per coloro che ci hanno trasmesso, da una generazione all’altra, in mezzo a tante difficoltà, persecuzioni, trasformazioni, il tesoro prezioso della fede.

Tuttavia il senso della festa odierna è prima di tutto la celebrazione della fedeltà e dell’onnipotenza dell’amore divino per l’uomo. Il testo famoso delle beatitudini non è un codice morale, al quale i santi si sono attenuti: è piuttosto l’annuncio solenne, all’inizio della predicazione di Gesù, delle scelte di Dio: Dio sceglie i poveri, coloro che piangono, coloro che il mondo disprezza, quanti non hanno forza per rivendicare il loro diritto; addirittura Dio sceglie i peccatori, poiché “del medico non hanno bisogno i sani, ma i malati”.

Essi sono beati non perché poveri o afflitti o peccatori, ma proprio per questa sovrana decisione di Dio di consegnare loro il suo amore, più forte di ogni limite e di ogni resistenza umana. La santità cristiana è il risultato di questo amoroso assedio del Dio philanthropos, amante degli uomini, per il quale le miserie, i rifiuti e le infedeltà sono uno stimolo per ricercare vie ancora più ardite e talvolta paradossali per raggiungere la pecora smarrita.

Oggi noi siamo chiamati a riflettere sul mistero della storia: chi sono i vittoriosi? Quali vie sono state veramente efficaci per rendere l’uomo migliore e il mondo più umano? A chi dobbiamo riconoscenza, se il male non ha vinto nei giorni dello scatenamento delle sue forze? Chi rappresenta ancora oggi una diga contro gli assalti mortali alla dignità e alla vita dell’uomo? E ancora: come possiamo noi resistere, come conservare la speranza?

Oggi tocca a noi combattere la buona battaglia, ma siamo circondati da queste presenze amiche. Oggi la soglia della morte si fa più sottile e la comunione con chi ci ha preceduto più facile.

Vi propongo due poesie, che ci possono aiutare a comprendere meglio il messaggio di queste due giornate. La prima è il frammento dell’inno sacro “Ognissanti”, che Alessandro Manzoni non completò. Parla della santità anonima, che il mondo non riconosce, come il fiore che sboccia in luoghi deserti. E parla anche dell’infinita bontà, sapienza e potenza di Dio, che accoglie anche nell’ultimo istante chi si è perso “per sentier di lusinghe funeste”.

Penso sempre a questa frase quando qualche ragazzo che ho seguito al CeIS muore di morte violenta o per droga, e comunque tutte le volte che un essere umano conclude la sua vita in solitudine, dopo gravi errori o dopo grandi sofferenze, nelle quali nessuno è stato in grado di aiutarlo.

Alessandro Manzoni, “Ognissanti”

Cercando col cupido sguardo,
Tra il vel della nebbia terrena
Quel Sol che in sua limpida piena
V’avvolge or beati lassù;

Il secol vi sdegna, e superbo
Domanda qual merto agli altari
V’addusse; che giovin gli avari
Tesor di solinghe virtù.

A Lui che nell’erba del campo
La spiga vitale nascose,
Il fil di tue vesti compose,
De’ farmachi il succo temprò,

Che il pino inflessibile agli austri,
Che docile il salcio alla mano,
Che il larice ai verni, e l’ontano
Durevole all’acque creò;

A Quello domanda, o sdegnoso,
Perché sull’inospite piagge,
Al tremito d’aure selvagge,
Fa sorgere il tacito fior,

Che spiega davanti a Lui solo
La pompa del pinto suo velo,
Che spande ai deserti del cielo
Gli olezzi del calice, e muor.

E voi che gran tempo per ciechi
Sentier di lusinghe funeste,
Correndo all’abisso, cadeste
In grembo a un’immensa pietà;

E, come l’umor, che nel limo
Errava sotterra smarrito,
Da subita vena rapito
Che al giorno la strada gli fa,

Si lancia e, seguendo l’amiche
Angustie, con ratto gorgoglio,
Si vede d’in cima allo scoglio
In lucido sgorgo apparir,

Sorgeste già puri, e la vetta,
Sorgendo, toccaste, dolenti
E forti, a magnanimi intenti
Nutrendo nel pianto l’ardir,

Un timido ossequio non veli
Le piaghe che il fallo v’impresse:
Un segno divino sovr’esse
La man, che le chiuse, lasciò.

Tu sola a Lui festi ritorno
Ornata del primo suo dono;
Te sola più su del perdono
L’Amor che può tutto locò;

Te sola dall’angue nemico
Non tocca né prima né poi;
Dall’angue, che, appena su noi
L’indegna vittoria compiè,

Traendo l’oblique rivolte,
Rigonfio e tremante, tra l’erba,
Sentì sulla testa superba
Il peso del puro tuo piè.

La seconda poesia è “La madre” di Giuseppe Ungaretti. In essa c’è una frase preziosa: la morte è “un muro d’ombra”, cioè niente. Nulla ci separa veramente dai nostri morti: noi siamo dalla parte dell’ombra, ma loro ne vedono la faccia luminosa. C’è la paura, spesso l’ignoranza e l’insensibilità verso il mistero della vita: ma chi appena appena si ferma, fa un po’ di silenzio dentro di sé, pensa ai suoi cari, non può non sentire che noi siamo realmente dei pellegrini, che “la nostra cittadinanza è nei cieli” (Fil 3,20), che la nostra vita in questo mondo può essere vissuta tanto meglio quanto più sappiamo distinguere ciò che è veramente importante, ciò che resta: “Tre sono le cose che restano, la fede, la speranza e la carità; ma di tutte la più importante è la carità” (1Cor 13,13).

Giuseppe Ungaretti, “La madre”

E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia.
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.