Zingaretti col cerino in mano

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Stupisce che Nicola Zingaretti si sia accorto solo ora – intervista a Repubblica, martedì primo settembre – che nella partita autunnale in corso tra governo e partiti possa essere proprio lui, dopo elezioni e referendum, a restare con il cerino in mano.

Il quadro è presto fatto. Secondo i sondaggi le elezioni regionali rischiano di trasformarsi in un bagno di sangue per i partiti di governo. Ribaltoni a favore dei candidati di centrodestra si prevedono in Puglia e nelle Marche, mentre sembra in bilico, novità storica, persino una regione storicamente rossa quale la Toscana.

Se i Cinquestelle potranno coprire le sconfitte elettorali con la probabilissima vittoria del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari – e sarà una vittoria tutta loro, perché una quota elevata di elettori Pd voteranno certamente per il No – i dem saranno messi all’angolo e con essi, per primo, il segretario.

Numerosi parlamentari lamentano apertamente una gestione del partito ambigua e inadeguata. La spregiudicatezza con cui è stata sacrificata la dignità di militanti ed elettori sul caso Bibbiano ha lasciato strascichi cui ha dato voce la deputata modenese Giuditta Pini: “Questa estate abbiamo saputo, senza alcun preavviso, che il segretario aveva deciso di ritirare le denunce contro il M5S. Anche a nome del partito”. Partito che, invece, non è stato in alcun modo consultato.

Neppure il circolo dem di Bibbiano, dipinto per mesi da Di Maio come luogo di infernali nefandezze, ha ricevuto da Zingaretti alcuna comunicazione.

Insiste Pini: “Hanno convocato la direzione a 13 giorni dal voto e il giorno dopo, senza aspettare la riunione, il segretario ha detto che il partito avrebbe votato Sì. Chi lo ha deciso? Quando?”.

Preoccupato dalle manovre e dai riposizionamenti interni, costretto ad addossarsi le responsabilità delle eventuali sconfitte regionali, Zingaretti rischia di pagare per tutti l’errore di un’opzione politica che non appare realizzabile neppure con forzature verticistiche, ossia l’alleanza organica con i Cinquestelle. Alleanza che rivela la propria matrice tatticistica, non strategica, e dal respiro corto (l’elezione di un dem alla presidenza della Repubblica a inizio 2022).

Il punto è che l’anima intimamente populista dell’elettorato grillino, peraltro ampiamente già dispersa tra tradimenti e delusioni, non può incardinarsi nel vissuto riformista del centrosinistra. E non bastano le giravolte di Di Maio per convincere milioni di elettori democratici, orfani di un mondo in cui le parole sinistra e riformismo, come demagogia e populismo, continuavano e continuano ad avere senso, a rinunciare alla propria identità in nome di un generico atteggiamento emergenziale e governista. Avesse guardato all’esperienza emiliana, Zingaretti, non si troverebbe oggi in un vicolo cieco. E, per nemesi, toccherà forse proprio a un emiliano doc come Stefano Bonaccini sostituirlo alla guida del Pd.




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