Quando Camillo Prampolini appese la spada al chiodo

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L’incessante “predicazione” politica – sociale di Camillo Prampolini tesa a riscattare il popolo dalla miseria e dalle ingiustizie, ebbe anche il merito di abbattere tabù e anacronistiche convinzioni, retaggio di una cultura retrograda e datata nel tempo. Fu il caso del matrimonio e dei funerali civili, della parità dei diritti tra uomo e donna o del duello per difendere l’onore oltraggiato. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, interessanti e moralmente educatrici apparvero le motivazioni con le quali Prampolini argomentò il suo rifiuto di battersi a duello per sostenere le sue ragioni e difendere il suo onore. Vediamo dunque come maturò quella sua convinzione, che a molti suoi contemporanei apparve quasi blasfema.

Le elezioni del 21 maggio 1886, perse di misura dalla lista democratica – socialista reggiana, ebbero uno strascico polemico molto acceso in città, specie tra Camillo Prampolini e Alfredo Moscatelli, del giornale clerico – moderato L’Italia Centrale. Il fuoco divampò quando La Giustizia condannò l’invito ai maestri da parte del giornale moderato, affinché svelassero i nomi di quanti tra i loro colleghi avevano fatto, in occasione del voto, esplicite allusione al nonno di Moscatelli, molto vicino al Duca di Modena al tempo dei moti risorgimentali. La risposta de La Giustizia non si fece attendere e risultò quanto mai sferzante e definitiva. Per il giornale socialista si trattava semplicemente di “acredine velenosa propria dei rinnegati”.

Prampolini ne ricavò quattro sfide a duello dalla famiglia Moscatelli: una dallo stesso Alfredo, una dal fratello di questi e due dagli zii. Quegli inviti tesi a risolvere il contezioso con l’antica pratica risolutiva delle questioni d’onore in uso soprattutto in ambito militare e nell’alta società, dovette sorprendere non poco Prampolini, abituato ad affrontare i problemi con l’uso della ragione e non della sciabola. Dopo un primo momento d’incertezza, Prampolini si decise ad affrontare l’avversario.

Il primo duello, quello con Moscatelli, si risolse in pochi minuti. La sfida fu sospesa, infatti, quando Moscatelli rimase ferito per due volte a un braccio. Nell’occasione Prampolini dimostrò di possedere un coraggio fisico fino ad allora sconosciuto e in netto contrasto con la sua esile figura corporea. Fu quello però l’ultimo duello che Prampolini accettò di combattere, chiarendo di non credere al valore risolutivo della violenza e della forza, se non usata per difendersi. Rimase coerente con quella decisione anche tre anni dopo, quando, la notte del 28 maggio 1889, fu aggredito e schiaffeggiato perché accusato d’aver stigmatizzato sulla Giustizia del 19 maggio il comportamento scorretto di un ufficiale nei confronti di un soldato napoletano. Ai padrini dell’ufficiale, giunti il giorno seguente per raccogliere la sua richiesta di sfida, rispose che non avrebbe accettato nessuna riparazione, ma avrebbe agito sporgendo querela, come suo diritto e dovere verso chi abusava della violenza.

Riconobbe un errore essersi battuto in passato, non attribuendo nessun valore agli schemi convenzionali risalenti a un codice cavalleresco ormai fuori dalla storia e propri della borghesia.

Sulla Giustizia del 2 giugno chiarì: “Io sono felice che mi si offra occasione di proclamare pubblicamente e in causa mia propria, che io mi infischio della così detta cavalleria…e se qualcuno mi percuote, io mi difendo e mi difenderò, ma non sono tanto imbecille che la violenza usatami dal mio aggressore sia una ragione per piegarmi a fare appunto ciò che vuol lui. Ho commesso una volta, in un momento di grave irritazione, l’errore di battermi, ma neanche allora ho mai pensato di rendere omaggio all’opinione di chi stima che il duello non debba rifiutarsi, e che le questioni debbano risolversi con la forza e che un colpo di sciabola debba dar ragione a chi ha torto, e levar le colpe…Seguo io pure le regole di una certa cavalleria che tutte le persone dabbene rispettano e che invecchierà giammai; ma essa non è quella convenzionale e assurda dei “gentiluomini”, bensì quella molto pedestre e solida dei “galantuomini”; ed essa dice che cavaliere è colui che usa della sua forza e superiorità non già a offesa ma a difesa e protezione dei deboli. Si inspiri anche l’ufficiale a questa norma, e non gli accadrà più di trovarsi impegnato in una polemica come questa”.

Le parole di Prampolini destarono grande clamore per l’attacco portato ad una pratica ancora fortemente sentita e praticata. Se le critiche non tardarono ad arrivare, molte furono anche le attestazioni d’approvazione e di stima per le nobili ragioni che pose a motivo di quella sua scelta.

Molto significativa appare la lettera inviata dall’amico Gnocchi Viani: “Mio caro Prampolini avete dato coraggiosamente uno schiaffo al pregiudizio del duello! La causa della civiltà, che è pure la causa del socialismo, ve ne sarà grata: e i socialisti tutti dovrebbero dal vostro esempio trarre incoraggiamento e seppellire finalmente sotto la sua vergogna questo antipatico avanzo medievale del duello”.
Anche il direttore del Progresso di Piacenza Gustavo Paroletti gli telegrafò: “Giornali, apprendonmi or vostra vertenza. Ammiro plaudente vostro coraggio bene superiore a quello di sollazzarsi sul terreno per appagare cieco stupido orgoglio sciabola. Protestovi intera affettuosa solidarietà. Abbracciovi”.

Il contributo di Prampolini al superamento di insignificanti comportamenti legati ad una tradizione ormai priva di alcun valore, ebbe, come tanti altri, un peso notevole nell’opera di educazione e di elevazione morale del popolo, proiettato alla progressiva costruzione del socialismo.