L’assoluta, convinta, irrinunciabile posizione pacifista di Camillo Prampolini e dei principali esponenti riformisti reggiani, non fu sempre facilmente compresa, anzi a volte venne fraintesa, nel montante clima nazionalistico- patriottico a favore dell’entrata in guerra dell’Italia nel Primo conflitto mondiale. Per Prampolini e compagni difendere e rafforzare la pace significava rispondere a un imperativo morale, dal quale non si voleva e non si poteva prescindere.
La battaglia per conservare l’Italia neutrale fu condotta con determinazione in parlamento e nel paese, nei luoghi di lavoro e nelle piazze, con scioperi e manifestazioni in ogni comune.
Per Prampolini si trattava di una battaglia irrinunciabile di libertà, di umanità e di progresso. Ogni guerra rappresentava per lui una sconfitta della civiltà, capace di procurare ritorsioni, odi e problemi di ogni tipo: economici, politici e di giustizia sociale.
Anche nella Reggio riformista non mancarono momenti di incomprensione e di accesa discussione perfino dentro il partito. Due significativi episodi ne offrono una eloquente testimonianza. Il primo si riferisce alla decisione assunta nel 1916 da Mazzoli, Roversi, Zibordi, Soglia e altri dirigenti, di ritirare la firma dal manifesto del Comitato provinciale di propaganda per il prestito nazionale. Tale decisione fu spiegata e argomentata su La Giustizia quotidiana del 19 gennaio 1916.
I socialisti spiegarono in sostanza che sarebbero caduti in una profonda e ingiustificabile contraddizione se avessero lottato perché la guerra terminasse il più presto possibile e se contemporaneamente avessero sostenuto l’impresa bellica sottoscrivendo appunto un prestito nazionale per finanziarla. La loro coerenza e la loro dignità non lo permettevano.
Il secondo episodio accadde sempre nel 1916, quando Prampolini si oppose alla proposta dei clericali e degli interventisti in Consiglio comunale, intesa a ricordare e onorare gli studenti caduti in guerra del locale Liceo classico con una lapide che ne riportasse incisi i nomi.
Tale intransigenza lo portò a sostenere un polemico confronto epistolare con il vecchio amico ed ex socialista prof. Pietro Petrazzani, che aveva perso suo figlio sul Carso. Petrazzani, medico psichiatra e direttore dell’Istituto psichiatrico San Lazzaro, con gli ex sindaci di Reggio Alberto Borciani e il pittore Gaetano Chierici, aveva giustificato la guerra libica e con la cacciata dal partito dei “destri” al Congresso nazionale di Reggio del 1912, aveva subito aderito al Psri di Bissolati.
In una lettera inviata a Petrazzani, Prampolini, dopo aver espresso il suo personale e sincero cordoglio per la perdita del figlio, confermò la sua ostilità verso qualsiasi dimostrazione pubblica capace di rappresentare una sorta di consacrazione o di indiretta consacrazione della guerra, che lui continuava a considerare inutile e un barbaro fratricidio.
Il sentimento d’amicizia pur profondo nutrito verso Petrazzani, non si rivelò dunque sufficiente a indurre Prampolini a superare i suoi convincimenti politici e morali, anche davanti al dolore di un padre per la morte del figlio.
Lo scontro con l’amico Petrazzani, pur restando i due fermi nelle rispettive posizioni, ebbe poi modo di ricomporsi e la lapide, dopo molti anni di esposizione all’interno di Palazzo San Giorgio in via Farini, allora sede del Liceo, solo nel 2016, una volta restaurata e arricchita con l’incisione con i 28 nomi dei caduti, venne posta in un muro esterno del nuovo Liceo Ariosto e solennemente inaugurata dall’amministrazione comunale.
Quei giovani rappresentarono purtroppo solamente una minima parte dei caduti reggiani nella Prima guerra mondiale. Oggi sappiamo che in realtà essi raggiunsero lo spaventoso numero di 6075, pari al 2% della popolazione reggiana del tempo.
Le ultime 6 righe esprimono l’essenza del pensiero di Prampolini, i morti chiamano altri morti, la guerra è da condannare a prescindere.