Nostra morte digitale

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L’ultimo grande tabù dell’epoca contemporanea è la morte. Pochi decenni di materialismo e di cosiddetto progresso sono bastati per annientare i ritmi ancestrali del vivere e del morire. La morte non si vede più, viene allontanata da noi attraverso la progressiva abolizione dei riti e della fisicità negata. Sfiorare un cadavere, seppure del più caro nostro amato essere umano, è divenuto un gesto che mette un po’ paura e un po’ disagio.

Un sempre maggiore numero di persone sceglie, o qualcuno lo sceglie al suo posto, di farsi cremare. Ma la cremazione stile occidentale non ha niente di spirituale. I nostri forni crematori sono unici nel loro squallore e le sale d’attesa per i congiunti che vi assistono sono rozze e spoglie.

Chi abbia mai avuto in sorte di partecipare a un funerale balinese, o thailandese, o indù, comprende bene la differenza. Malinconia e bellezza accompagnano il defunto in un saluto denso di significati e di dolce condivisione. A proposito della sua nuova condizione, si dice che egli abbia “lasciato il corpo”. Ovvero che l’anima, o il Sé – per usare un’espressione più adeguata ai canoni occidentali – sopravviva al corpo fisico e si allontani in vista di una possibile, anzi probabile nuova incarnazione.

Riflettevo su queste considerazioni durante uno studio sulla relazione tra morte biologica e morte digitale. Che c’entra, si dirà. C’entra eccome, poiché è del tutto evidente che la realtà imposta dall’era della digitalizzazione globale ha creato accanto alla nostra vita di esseri biologici umani un’esistenza parallela formata da dati, testi, immagini, video, audio, tracce di noi stessi in rete destinati all’eternità e che costituiscono la nostra singola identità digitale. Se esiste un’identità digitale in vita, ne esisterà verosimilmente una anche in morte.

Le implicazioni spirituali e materiali correlate alla morte fisica vanno oltre la tradizionale gestione dei congiunti scomparsi e ci chiama a una nuova consapevolezza. Siamo la generazione di passaggio tra il vecchio e il nuovo. I nativi digitali troveranno presto nuove soluzioni per affrontare il tema della sopravvivenza di qualcosa di noi, quando li avremo lasciati.

Per lungo tempo, nei cimiteri fisici sparsi accanto a paesi e città, ci si è abituati a seppellire il defunto, piantare una lapide e apporvi una fotografia. Una sola, accanto a nome e cognome, data di nascita e di morte.

Oggi la tecnologia ha arricchito enormemente gli strumenti per un ricordo più denso e, letteralmente, più vivo: quando arriva la morte naturale, resta accesa – per paradosso – la vita digitale. Social network come Facebook (due miliardi di iscritti) offrono la possibilità all’utente in vita di decidere, in caso di morte, a chi affidare e come gestire l’account. Si può donare la pagina a un soggetto terzo, oppure trasformarla in una pagina di ricordo celebrativo, oppure non toccarla affatto e lasciarla galleggiare per sempre, oppure cancellare tutto. Ma sono atti, questi, che vanno compiuti in vita dal titolare di account Facebook. Un po’ come scrivere il testamento.

Tra pochi giorni sarà il compleanno di un amico recentemente scomparso. La sua bacheca è inondata da mesi di messaggi che si rivolgono a lui come se fosse ancora vivo, e nello scrivergli alimentano la fiaccola della memoria. Facebook diventa il luogo dove gli amici condividono accadimenti del presente come se la morte non fosse avvenuta. È un monologo di tanti che somiglia a una preghiera: qualcosa che ricorda le invocazioni ai santi.

So che tra pochi giorni Facebook mi invierà una notifica volta ad augurare al mio amico buon compleanno: l’algoritmo non sa che egli non c’è più. E così sarà forse per qualche tempo, o per sempre, in uno spazio di memoria custodita in una nuvola virtuale.

Non è così agevole prepararci ad affrontare la nostra “sorella morte corporale”, secondo la meravigliosa preghiera di San Francesco d’Assisi. È un pensiero lontano quando si è giovani, che diventa ben più angosciante quando si inizia a fare i conti con l’età. Eppure, avvicinandovisi con serenità, l’angoscia si fa meno opprimente.