Non è la D’Urso, è Zingaretti

Nicola Zingaretti Barbara Durso

Sono rimasto sconcertato dal tweet di solidarietà inviato ieri da Nicola Zingaretti alla conduttrice televisiva Barbara D’Urso. A differenza di altri leader, il segretario del Pd si esprime raramente via Twitter e quando lo fa è proprio perché se ne sente obbligato. La sospensione anticipata di un programma della D’Urso dalle reti Mediaset è a suo avviso, evidentemente, un tema rilevante sul quale intervenire.

Quando l’ho letto, lì per lì ho pensato di essermi imbattuto in uno dei tanti fake che circolano in rete. Invece no. Era proprio Zingaretti a scrivere alla conduttrice delle tivù berlusconiane “hai portato la politica vicina alle persone, ne abbiamo bisogno!”. Col punto esclamativo, per giunta.

Così mi sono sovvenuti Togliatti e Berlinguer. Il confronto è impraticabile e scorretto. Sarebbe intellettualmente disonesto paragonare Zingaretti alle figure mitiche dei due segretari del Partito comunista, nel senso che il tempo relativizza, a volte emenda, di certo avvolge tutto nell’emozione del ricordo. Non è manco lontanamente immaginabile che Togliatti o Berlinguer potessero diramare una nota di solidarietà a una ex showgirl e conduttrice nota non esattamente per la qualità dei suoi programmi, per di più appartenente alla galassia del tycoon ex premier nemico di classe.

Ma Zingaretti lo ha fatto, e anche se nessuno ha voglia di passare per bacchettone, o addirittura per antimoderno, con quel tweet bisogna fare i conti. Soprattutto elettori e iscritti al partito di cui Zingaretti è il capo, o dovrebbe esserlo.

Con la caduta del governo Conte si è aperto per il Pd un problema di natura strategica: rafforzare l’alleanza con i Cinque stelle e con quel che rimane a sinistra, per renderla appunto di strategia con visioni e prospettive comuni anche in chiave elettorale, oppure lasciare che i grillini vivano da soli il travagliato sentiero della loro esistenza puntando alla guida di una rinnovata forza riformista.

Con la progressiva venuta meno della leadership berlusconiana e del bipolarismo conseguente, fattore principale di identità della Seconda Repubblica, si sta appannando anche la vocazione maggioritaria del partito fondato da Walter Veltroni. Zingaretti non fa mistero di puntare a una nuova legge elettorale modificata in senso proporzionale, il che significherebbe assicurare a tutti o quasi il diritto di rappresentanza in Parlamento ma anche lo stop all’elezione diretta di una maggioranza politica.

Il proporzionale restituisce ai partiti il ruolo centrale nei quali si muove l’azione politica e toglie al tempo stesso ai cittadini la possibilità di indicare coalizione e premier in pectore. Ma che partito è rimasto, quello di cui oggi Zingaretti è segretario? Un partito che non riesce a nominare ministre donne nel governo Draghi, il partito che dialoga con Barbara D’Urso?

Indire un congresso in questo periodo sarebbe da marziani, ha pure detto il segretario. Anche far cadere Conte era roba da marziani, e così pure lo sarebbe stato il governo Draghi voluto dal presidente Mattarella. Si vede che i marziani sono arrivati senza che il segretario dem se ne sia accorto.

In realtà il Pd avrebbe bisogno di un congresso vero, fondato su opzioni politiche chiare e antagoniste. Non certo di un rito inutile basato sull’equilibrio delle correnti. Credo che il partito avrebbe anche bisogno di uscire dalla dimensione romanocentrica che lo riduce a un clima asfittico per aprirsi alla società e alle nuove idee in circolazione. Il ricambio generazionale della leadership è già in ritardo.