L’omelia di Camisasca per il 75esimo

vescovo Camisasca

In Duomo mercoledì sera la messa celebrata dal vescovo monsignor Massimo Camisasca in occasione del 75esimo compleanno. Il capo della diocesi di Reggio Emilia e Guastalla si prepara a lasciare il suo in suo incarico in vista della pensione.

L’omelia del vescovo.

“Cari fratelli e sorelle,

la prima piccola parabola contenuta nel Vangelo che abbiamo ascoltato ci invita a quella vigilanza che permette di finire il lavoro.
Mentre ringrazio il vicario generale e coloro che hanno desiderato questa Messa in occasione del mio 75° compleanno, auspico che essa possa costituire un giusto richiamo per tutti noi.

Ogni compleanno è innanzitutto un momento di gratitudine a Dio, perché ci ha voluti e ci ha amorosamente custoditi lungo le strade della vita. Basterebbe tener viva in noi la meraviglia che nasce dalla scoperta di essere al mondo, oggetto del pensiero e dell’amore del Padre, per attraversare e vincere tante nostre paure e difficoltà. Non solo: sappiamo che il Padre ci attende, anche se non conosciamo le eventuali prove e sofferenze che ci avvicineranno a Lui, purificando il nostro cuore dalle scorie che si sono depositate in esso lungo gli anni della vita.

Desidero che questa Eucarestia sia, come sempre, un atto di ringraziamento in cui all’immenso sacrificio di Cristo si unisce la piccola offerta della mia vita e della mia obbedienza al Padre.

Il Vangelo di questa sera ci parla delle condizioni per seguire Gesù. È, a prima vista, uno dei testi più sconcertanti dei vangeli sinottici, soprattutto se lo leggiamo con superficialità, senza metterlo in rapporto con l’insegnamento complessivo di Gesù. In queste parole Egli ci parla di un triplice distacco come condizione assolutamente necessaria per poterlo seguire. Le espressioni che usa sono molto forti e non possono essere lette in contraddizione con il IV comandamento, con l’invito ad amare se stessi, con la gioia che Gesù mostra molto spesso nel suo rapporto con la creazione. Egli sempre la contempla con lo sguardo rivolto al Padre e alla bontà dell’universo richiamata dal libro della Genesi.

Che cosa vuol dire, dunque, con questo verbo “odiare”? Per seguirlo Egli chiede che la nostra dedizione a Lui sia intelligente e totale. «Questo odio non mette in noi l’intenzione di tramare insidie» – scrive Basilio di Cesarea – «ma ispira la virtù della pietà portandoci a disubbidire alla voce di coloro che volessero distogliercene»1. Dobbiamo seguirlo con le armi necessarie, dopo esserci preparati attraverso un’educazione dell’amore. «L’odio, il commiato, la separazione non diventano fini a sé stanti, ma una porta necessaria, al di là della quale si impara a vedere il mondo in modo diverso».

Ci sono tre cordoni ombelicali che devono essere tagliati. Il primo è quello che può legarci alla famiglia, e più in generale ai famigliari, in modo inappropriato, anteponendoli all’amore a Gesù. Ciascuno di noi può fare qui un esame di coscienza. Tutti sappiamo quanto possono essere difficili i passi verso la maturità del rapporto con coloro che ci hanno generati, verso i nostri fratelli e sorelle, verso i nostri parenti. Gesù non ci invita né a disinteressarci di loro, né tantomeno a detestarli. Egli ci vuole, però, liberi. «Con l’aggiunta dell’espressione ‘più di me’» – scrive Cirillo di Alessandria – «è chiaro che egli ci permette di amare, ma non più di quanto amiamo lui. Egli esige per sé il nostro maggiore affetto». Tutto ciò che può essere ingombrante deve essere eliminato. Quante volte sono dovuto intervenire per aiutare le persone a liberarsi dai litigi per l’eredità! Dobbiamo amare nella distanza, consapevoli che il modo più vero di amare i propri cari è custodire la propria vocazione.

Gesù ci invita a tagliare, poi, un secondo cordone ombelicale: l’amore verso se stessi vissuto come idolatria del proprio io, del proprio successo, del proprio essere considerato dagli altri. Tutto ciò non vuol dire che non dobbiamo amare noi stessi. Gesù ha detto: ama il prossimo tuo come ami te stesso (Mc 12,31). Dobbiamo amarci in modo vero, guardare a noi stessi come ci guarda Gesù, liberi da ogni narcisismo e volontà di autoaffermazione. Infine, Gesù ci invita a portare la nostra croce e a seguirlo. Ci invita, cioè, ad accogliere tutte quelle contraddizioni, quelle fatiche e quelle lotte che rappresentano una partecipazione alla sua croce. Ci invita a essere testimoni, a non avere paura del martirio. A ricordare la gioia e la pace che egli promette e dona ad ogni suo discepolo.

«Gesù non esorta alla cattiveria» – scrive in sintesi Klaus Berger – «ma vuole chiamare alla libertà: alla libertà dal groviglio della famiglia […] e alla libertà dal narcisismo che non smette mai di farci diventare ciechi». È «come se venissimo trasportati in un altro mondo per quanto riguarda il nostro modo di vivere»5, commenta Basilio di Cesarea.
Anche la conclusione di questo brano del vangelo può sembrarci sconcertante: un terzo cordone va tagliato attraverso la rinuncia agli averi. Tale rinuncia può essere da qualcuno vissuta in senso letterale, ma vale per tutti come invito a non attaccarci alle cose che abbiamo, a non porre in esse la nostra speranza, a donare con generosità, a venire incontro ai bisogni dei poveri e dei fratelli in difficoltà. «Quando … ci si è separati da tutto, si diventa finalmente così liberi che ci si può rallegrare di ogni raggio di sole… Gesù esige di diventare sovrani sul serio, di non sfibrarsi in conflitti dovuti ai legami personali, alla lealtà e ai partiti… Il Gesù che ci presentano i vangeli è un uomo per i giovani… condivide la loro nostalgia di liberazione».

Se abbiamo guardato in profondità queste parole di Gesù, abbiamo scoperto che esse, proprio perché rappresentano una strada di libertà, sono una promessa di gioia e di serenità per i giorni che ci attendono. Questa è la mia preghiera per me stesso, per i miei famigliari, per i miei collaboratori e per tutti voi in questa santa Messa in cui ricorderò in modo particolare mio padre e mia madre.

Amen”.