Lettera di Natale: una vita semplice

Don Giuseppe Dossetti

Cari amici,
rileggo la lettera che vi ho scritto l’anno scorso. La trovo ancora attuale e mi permetto di riproporvela. Può servire, per misurare il passo compiuto da ciascuno di noi in questo anno. Tuttavia, qualcosa sento di poterlo aggiungere.

1. Anzitutto, rinnovo il mio ringraziamento a tutti voi: sono grato e orgoglioso di questa comunità che il Signore mi ha consegnato. Il Natale ci riporta a un clima di famiglia: ecco, mi pare che noi siamo davvero una bella famiglia.

2. L’anno scorso affermavo che è importante amare i poveri. Oggi aggiungo che è importante anche amare la povertà per noi, per le nostre famiglie. Certamente, il discorso si complica. Non tutti hanno la vocazione di sant’Antonio abate o di san Francesco. E poi, è davvero possibile scegliere la povertà?

Chi, oggi, perde il lavoro o è sfrattato dalla sua casa, o deve ricorrere ai servizi sociali, si preoccupa piuttosto – e giustamente – di cambiare la sua situazione. Non parliamo poi di altre povertà, come la malattia: non dovremmo cercare le cure necessarie? Dunque, non parlerò di questa povertà. Essa va vissuta nel colloquio segreto tra il singolo uomo e il divino Povero, che ci ha insegnato a chiedere: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.

3. Che cosa, allora, possiamo scegliere? Potremmo forse chiamarla “semplicità della vita”, oppure chiederci, con il Vangelo: “Dov’è il tuo tesoro?” (Mt 6,19-21). Dovremmo rivedere i nostri bilanci familiari e chiederci che cosa è veramente necessario. Questa revisione è la condizione minima per essere liberi e per dare alle cose il loro giusto valore.

Faccio un esempio. Da tempo rifletto sui matrimoni che celebro (o non celebro). In questi anni ho visto crescere le spese per il matrimonio e contemporaneamente aumentare le convivenze, che non pervengono al sacramento. C’è forse un legame tra questi due fatti? Ora, è doveroso far festa; ma non è giusto rovesciare l’ordine d’importanza delle cose. La grazia di Dio, che custodisce l’amore dell’uomo e della donna, va messa al primo posto.

L’abbondanza di cui ancora godiamo può renderci ciechi e contagiare con la nostra cecità i più giovani. Dovremmo discutere con i nostri ragazzi il bilancio familiare, per renderli partecipi di un ordine di priorità, perché non si illudano che tutto è possibile, anzi, che tutto è un diritto. Dovremmo trasmettere loro che il possedere non è un diritto, ma una responsabilità. Dovremmo ricordare, per loro e per noi, la parabola dei talenti (Mt 25,14-30).

Siamo giustamente preoccupati dell’imbarbarimento della politica e il nostro Vescovo ci ha messo in guardia sull’assenza dei cattolici dalla vita pubblica. Il primo modo di essere presenti mi pare proprio questo: riconoscere che non siamo proprietari di nulla, ma che quello che possediamo deve avere una destinazione verso il bene comune e che su questo saremo giudicati.

4. Ma che dire quando la povertà viene a visitarci, ospite non invitata? Penso in particolare alla malattia. Essa è la prova più grande, come ci ricorda il libro di Giobbe (2,1-5). In questo anno alcuni di noi si sono ammalati seriamente e qualcuno ha concluso la sua esistenza terrena. Ho ammirato il loro coraggio, la loro dignità, la loro fede.

Ho constatato quanto sia vero che “un uomo si conosce veramente dalla fine” (Sir 11,28). Penso che il fare memoria di loro sia un grande conforto: “La loro memoria è in benedizione” (Prov 10,7), ci fa sentire meno alta la soglia che anche noi dovremo attraversare. Ci fa sentire circondati da presenze buone, che ci incoraggiano a “combattere la buona battaglia della fede” (1Tim 6,12).

A chi soffre, è dovuta non solo la nostra umana solidarietà, ma anche l’attestazione che siamo consapevoli della prova che stanno attraversando. Per questo sono grato al gruppo di coloro che ogni sera, a san Pellegrino, recitano il Rosario per i malati e i sofferenti. Chi soffre ha il diritto (ripeto, il diritto) di sentire che la sua sofferenza rende i suoi fratelli più attenti e pensosi, li aiuta a leggere la propria vita secondo il Vangelo.

La malattia mette l’uomo di fronte alla propria verità, ma anche di fronte a Gesù crocifisso. Non dovrebbe mancare, nelle nostre case, la sua immagine. Chi è malato, e chi gli sta intorno, entra spesso in un grande silenzio. Anche la preghiera diventa difficile. Ma è sufficiente guardare il Crocifisso con gli occhi del cuore: allora il pianto non è debolezza, ma abbandono filiale, e nel silenzio il Signore ci conforta, come Lui soltanto può fare.

5. Concludo con le parole di papa Francesco sul presepio (altro segno che non dovrebbe mancare nelle nostre case): “In questo segno, semplice e mirabile, del presepe, che la pietà popolare ha accolto e trasmesso di generazione in generazione, viene manifestato il grande mistero della nostra fede: Dio ci ama a tal punto da condividere la nostra umanità e la nostra vita. Non ci lascia mai soli; ci accompagna con la sua presenza nascosta, ma non invisibile. In ogni circostanza, nella gioia come nel dolore, Egli è l’Emmanuele, Dio con noi.

Come i pastori di Betlemme, accogliamo l’invito ad andare alla grotta, per vedere e riconoscere il segno che Dio ci ha dato. Allora il nostro cuore sarà pieno di gioia, e potremo portarla dove c’è tristezza; sarà colmo di speranza, da condividere con chi l’ha perduta.

Immedesimiamoci in Maria, che depose il suo Figlio nella mangiatoia, perché non c’era posto in una casa. Con lei e con San Giuseppe, suo sposo, teniamo lo sguardo rivolto al Bambino Gesù. Il suo sorriso, sbocciato nella notte, disperda l’indifferenza e apra i cuori alla gioia di chi si sente amato dal Padre che è nei cieli”.

Buon Natale, miei cari.

Don Giuseppe