Generazione Covid nella quotidianità della vita virtuale

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di Gaia Grisanti

Da più di un anno, sono le parole di Roberto Burioni, Ilaria Capua, Andrea Crisanti, Fabrizio Pregliasco e tanti altri ad accompagnarci nelle disamine virtuali con i conoscenti, durante le cene in famiglia o in solitudine. La loro opinione e le loro considerazioni circa la condotta sociale a cui ricorrere quando si è fuori casa, i dati e le testimonianze dei medici in prima linea hanno travolto e alterato completamente le nostre vite, le nostre scelte. Abbiamo ascoltato prese di posizione, dibattiti, osservazioni.

Mi domando, a volte, se si siano mai fermati a parlare con i bambini, con i ragazzi e, soprattutto, se li abbiano ascoltati con attenzione. Ci vuole riguardo, ci vuole gentilezza, per ascoltare i bambini e i ragazzi che oggi interagiscono con il mondo attraverso uno schermo, perché per loro è un sacrificio enorme. “Tutti noi stiamo facendo sacrifici, rinunce”, dicono. No, non è la stessa cosa. I ragazzi stanno vivendo gli anni più belli della loro vita fra le mura di casa; crescono, ma non se ne accorgono. Hanno bisogno del confronto, di ridere di nascosto durante le lezioni, di dividersi la merenda, di abbracciarsi quando si ha vinto una partita, ma soprattutto quando la si è persa. Hanno bisogno di tornare tardi la sera, con i genitori che strillano, ma chiacchierare con i propri amici sul muretto dietro casa fa passare le ore e nemmeno te ne accorgi.

Hanno bisogno di tornare al parco la domenica pomeriggio e chiedere ad un altro ragazzo, ad un altro bambino, “vuoi giocare con me?”. Hanno bisogno di correre, senza l’ansia che qualcuno dica loro di tenere la mascherina, di stare attenti. Hanno bisogno degli scherzi in spogliatoio, dell’insegnante di piano che si siede accanto a loro e li aiuta a capire dove sbagliano. Hanno bisogno di giustificare dei ritardi a scuola, di fare esperienze che stanno tardando ad arrivare, ma il tempo scorre e lo sanno anche loro. Certo, nulla è perduto, ma non si avranno otto, quindici, vent’anni per sempre e gli anni della spensieratezza sono questi, ma non questi i tempi per godersela. Per loro è un limite difficile da comprendere, da accettare.

Vorrebbero sentirsi dire che tutto questo un giorno verrà ripagato, ma non lo sappiamo neanche noi; perciò stiamo vicini ai bambini, abbracciamo quelli che possiamo.
Negli ultimi giorni ho ascoltato tanti ragazzi, in merito al tema della didattica a distanza. La cosa che mi ha colpita di più è stata la durata delle nostre conversazioni: i ragazzi hanno bisogno di parlare, di esprimere la loro opinione relativa a questo strumento e noi abbiamo il dovere di ascoltarli.

Assorbono tutto quello che li circonda, riconoscono il dramma del periodo corrente e comprendono quanto questo sistema sia indispensabile per continuare a studiare, a imparare. “I contagi sono tanti, non ha senso tornare a scuola per un mese con il rischio di peggiorare ulteriormente la situazione” dice Niccolò, studente al quarto anno di liceo scientifico. In molti sono d’accordo con lui, e l’opinione è unanime: “Senza la DAD, non avremmo la scuola”. Riscontri positivi, inoltre, li hanno trovati soprattutto gli studenti universitari, che attraverso questa modalità riescono a gestire in maniera indiscutibilmente più autonoma le ore di lezione, essendo sempre e comunque registrate.

Possono dunque essere recuperate in qualunque momento, potendo riascoltare anche più volte i concetti immediatamente più ostici espressi da un docente, diversamente dagli altri gradi di istruzione, in cui spesso la concentrazione svanisce e la possibilità di recuperare alcune nozioni diventa ingestibile; tralasciando gli orari, che sono stati modificati ulteriormente, prolungandosi anche di ore. L’altra faccia della medaglia, sempre in ambito universitario, riguarda l’aspetto relativo ai tirocini. Facoltà che prevedono una preparazione non solo teorica ed accademica, ma anche di esperienza pratica sul campo, restano indubbiamente incomplete ed orfane della prospettiva dinamica, e un nuovo pandemico contrappasso si dispiega senz’altro sul fatto che la maggior parte di queste facoltà appartenga al ramo medico-sanitario. “Arrivo al terzo anno di odontoiatria senza avere mai osservato una bocca dal vivo” dice Ilaria.

Il nodo nevralgico di questo sistema, diventato ormai scheletro spolpato delle relazioni e della formazione delle nuove generazioni, penso possa essere sintetizzato con le parole di Francesca: “I professori pensano che seguire le lezioni da casa sia più facile, per noi. Sono convinti che sia come una vacanza, con la differenza che ogni tanto ti devi collegare al computer. Prevedo già il moltiplicarsi di verifiche ed interrogazioni nel caso di un eventuale ritorno a scuola, a palese delegittimazione di tutti gli esiti delle prove digitali precedenti, considerate inutili, ma a fronte di un carico di lavoro solo apparentemente rimasto invariato”. Tutti gli studenti con cui mi sono confrontata, hanno sollevato questa problematica: il tempo che passano davanti ad un dispositivo elettronico sta diventando insostenibile. In media, uno studente passa dalle sette alle dieci ore davanti ad un computer, fra lezioni, studio pomeridiano ed eventuale svago serale. “La sera mi ritrovo al computer anche per giocare con i miei amici, almeno stiamo in compagnia…”- dichiara Federico- “…non ho altro modo per potere stare con loro, adesso. Il problema è che la mia vita scorre davanti ad uno schermo”.

Quelli di cui abbiamo parlato fino ad ora sono aspetti che non hanno funzionato all’interno di metodo che avrebbe dovuto evolversi, ma che è rimasto il medesimo a distanza di un anno. All’interno dell’involucro metodologico, rimangono alcuni angoli bui e lo spiraglio di un’iniziale soluzione vincente e “valida per tutti” non è variato: il sostegno scolastico non è pervenuto. Ci si è dimenticati dei bambini che hanno bisogno di un aiuto in più, che a scuola erano affiancati da una figura professionale abilitata a questa specifica didattica e che ora sono soli. “La mamma e il papà si devono organizzare, devono stare a casa con me, davanti al computer. Quando non facevamo lezione, sono stati loro i miei insegnanti”, afferma Agnese.

Ho avuto l’opportunità di parlare anche con Roberto, un insegnante, ed è con le sue parole che vorrei concludere: “la DAD è uno strumento potentissimo, ma che è sfuggito di mano: non è possibile pensare che possa sostituire la didattica in presenza”. Nessuna delle persone con cui ho parlato si è dimostrata soddisfatta di questa nuova modalità, nonostante alcuni (pochi) aspetti positivi. Penso sia dunque doveroso dare voce a questi ragazzi, che hanno paura, ma tanto entusiasmo. Meritano di condividere con tutti quella che oggi è la loro vita, la loro realtà, perché se a sovrastare la confusione sono sempre e soltanto le priorità dei grandi, allora vuole dire davvero che ci siamo dimenticati di essere stati bambini.