Davide senza armatura

Davide vs Golia

Sessantaseiesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus

Quando Davide, ancora ragazzo, sfidò Golia, il gigantesco guerriero filisteo, il re Saul, molto preoccupato, gli fece indossare la propria armatura: corazza, schinieri, elmo, spada. Il risultato fu che Davide non riusciva più a muoversi. Si liberò allora di tutto quel peso e ritornò alla sua arma di pastore, la fionda. E così vinse il gigante.

Molti hanno usato quest’immagine per sollecitare la Chiesa a rinunciare alla ricerca del potere temporale ed economico; si tratta di impedimenti alla sua libertà e all’efficacia della sua azione, che dipende dallo Spirito Santo e non dalla ricchezza e dai riconoscimenti umani. Gesù sembra dare loro ragione, quando ordina ai suoi discepoli in missione di “non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone, né pane, né sacca, né denaro nella cintura” (Mc 6,8).

È molto bello notare che Gesù dà queste istruzioni in un contesto di conflitto, di guerra. Il regno di Dio si scontra con un altro regno, che è già presente nel mondo e che non ha nessuna voglia di farsi da parte. È il regno di Satana: l’incarico principale che viene dato agli apostoli è proprio quello di cacciare gli “spiriti impuri”, prolungando così il ministero di Gesù.

Questa guerra non può essere combattuta con le stesse armi del nemico. Si andrebbe incontro a una sicura sconfitta. La storia della Chiesa ci fornisce numerose conferme, ma anche oggi abbiamo bisogno di purificazione. Ce ne ha dato l’esempio san Giovanni Paolo II, quando il 12 marzo del 2000 celebrò la giornata della purificazione della memoria, nella quale chiese perdono per i peccati commessi dai cristiani lungo i secoli, fra i quali la divisione e la guerra tra i discepoli di Cristo, l’uso della violenza in un presunto servizio alla verità, le ingiustizie a danno degli ebrei, i comportamenti contro la pace e i diritti dei popoli. Non erano ancora emersi gli orrori della pedofilia e altri scandali recenti.

Sono convinto che tutto questo sia la conseguenza del voler combattere il mondo con le sue stesse armi. Mi chiedo, per esempio, come sia stato possibile che gli stati dell’Europa, cristiani, si scannassero nella Prima Guerra Mondiale, cercando ciascuno di arruolare Dio alla propria parte. Solo il Papa, Benedetto XV, mise in guardia contro “il suicidio dell’Europa” e invitò a fermare “l’inutile strage”, senza essere ascoltato neppure dai vescovi. Penso che allora venne a mancare la forza critica, il coraggio profetico. Trono e altare erano troppo legati l’uno all’altro.

È vero, d’altra parte, che in ogni tempo vi sono stati uomini e donne che hanno vissuto il Vangelo e spesso gli hanno reso testimonianza con il sangue. Ricordo il ministro pakistano per i diritti delle minoranze, Shabaz Bhatti, ucciso dagli estremisti nel 2011. Scriveva, a proposito del suo servizio: “Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo… Se noi portiamo a termine la missione di aiutarli, ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù e io potrò guardarlo senza provare vergogna”.

La Chiesa porta dunque le ferite dei peccati dei suoi membri, ma conserva la bellezza che il suo Fondatore le ha donato e le restituisce continuamente. “Egli ha dato se stesso per lei, per renderla santa, […] per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga, ma santa e immacolata”, dice san Paolo (Ef 5,25 ss.).

Credo che il Fondatore stia compiendo quest’opera di purificazione: come un bravo medico, sta incidendo le piaghe e sta usando la dura medicina dell’umiliazione. Dobbiamo accettarla e assecondarla, vivendo la povertà del discepolo, che però tutto spera dal suo Signore. Si tratta di quella “povertà in spirito”, cioè fino in fondo, nell’intimo della persona, della quale parla il vangelo delle Beatitudini. Ad essa è promesso il Regno. Le pecorelle del Buon Pastore non andranno perdute, perché per loro egli dà la propria vita (Gv 10,11).