Dalla morte di Palmiro Togliatti all’invasione di Praga, quei 21 agosto che hanno fatto la storia

06 1968 Carri armati a Praga

Il 21 agosto è la ricorrenza di due anniversari, la morte di Palmiro Togliatti, avvenuta a Yalta (Crimea, Urss) nel 1964, e l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle forze del Patto di Varsavia nel 1968. Non faremo la biografia di Togliatti (per chi fosse curioso suggeriamo a tal guisa: G. Fiocco, Togliatti, il realismo della politica. Una biografia, 2018 e A. Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera, 2003), ma andremo all’estate del 1989 quando il vecchio Partito comunista intraprese la strada della propria dissoluzione.

Togliatti visita i feriti degli scontri del 7 luglio.

Un’accelerazione al cammino verso la “Cosa” [così chiamato prima del XX Congresso del 1991, quando diverrà Partito democratico della sinistra, Pds] – ossia verso un partito non ancora ben definito – ha contribuito senza dubbio anche la protesta in piazza Tienanmen a Pechino, che si svolse dal 15 aprile al 4 giugno 1989, la giornata quest’ultima, che vide l’esercito cinese aprire il fuoco contro i dimostranti, provocando la morte di centinaia persone e ferendone migliaia.

Achille Occhetto ricorda: «Prima della caduta del Muro avevamo alle spalle un anno tempestoso, c’era stata Tien An Men. Quel giorno stavo facendo un comizio a Firenze, e arrivò un biglietto con la notizia. Io interruppi il comizio e convocai per la sera un sit-in davanti all’ambasciata cinese: dissi “se questo è il comunismo è morto”. Ma anche avevo avuto sensazioni profonde di cambiamenti in tutto l’Est. Qualcosa si stava sgretolando» (Ansa)

Qualche mese prima si era svolto il diciottesimo congresso del Pci (Roma 18-22 marzo 1989) – che aveva segnato la consacrazione del nuovo e più giovane gruppo dirigente – con segretario Achille Occhetto, che era succeduto, nel giugno 1988, non senza qualche strascico polemico, ad Alessandro Natta – e in cui si progetta il cambiamento di nome (e di natura) del Pci, cambiamento avvenuto ufficialmente con il XX (singolare coincidenza, no?) congresso del febbraio 1991. Una consistente minoranza vi si oppose dando vita, nel dicembre dello stesso anno, al Partito della Rifondazione comunista.

L’annuncio del cambiamento del nome era stato lanciato da Occhetto il 12 novembre 1989 nella sezione del Pci della Bolognina, rione del quartiere Navile a Bologna.

Gli fa eco da Reggio Emilia, Fausto Giovanelli – che nella primavera del 1989 era stato eletto segretario provinciale del PCI. Ricorda in una memoria: «E all’appuntamento con la storia, nell’89 i comunisti di Reggio Emilia sono arrivati piuttosto preparati. Reggio è stata l’unica città in cui il Partito comunista ha organizzato una manifestazione per l’abbattimento del muro di Berlino prima della sua caduta … Tra l’89 e il ’91 tutta la vita e la storia del Partito comunista italiano ci sono ritornate sotto gli occhi e tra le mani. In quel passaggio stretto – per me indimenticabile – il passato e il futuro sono entrati nel presente con una forza mai vista. La sfida era cambiare nome e cambiare l’anima di un partito che era vera una comunità di persone, di idealità e vita vissuta; e contemporaneamente farlo rinascere, farlo diventare una “cosa” nuova mentre era ancora casa e sicurezza per moltissimi».

Il nuovo partito in fieri (la Cosa), che nel congresso del 1989 si andava delineando, ha l’intenzione di trasformarsi, a tutti gli effetti, in forza post-comunista, socialdemocratica o laburista che sia. Insomma, un qualche cosa d’altro da ciò che era. Come sosteneva Giorgio Napolitano, secondo il quale il cambiamento del nome prendeva atto di un mutamento già avvenuto nei fatti: «Il Pci – afferma – era divenuto da tempo una cosa diversa dal nome che portava» (dichiarazione citata da Massimo Salvadori, 1999, p. 218). All’interno del Pci – scrive Salvadori – vi era «da un lato, a destra, l’ala dei riformisti guidata da Napolitano, che riteneva si dovesse collocare il nuovo partito nel corpo del socialismo democratico [il Pds, nato nel febbraio del 1991, aderì all’Internazionale socialista nel settembre del 1992, n.d.r.]; al centro stavano coloro che intendevano andare contemporaneamente oltre comunismo e socialdemocrazia nel tentativo di realizzare una koiné tra la democrazia e una Sinistra non socialdemocratica; a sinistra si ponevano coloro che, respingendo la prospettiva di una scissione, auspicavano la rinascita di un “comunismo democratico”».

L’“Unità” di domenica 20 agosto 1989, pubblica un articolo del filosofo Biagio De Giovanni dal titolo C’erano una volta Togliatti e il comunismo reale. E se le date rivestono un significato simbolico, allora si può affermare che l’uscita di quell’articolo, proprio quel giorno, venticinquesimo anniversario della morte di Togliatti, ha voluto essere un messaggio chiaro di rottura con la storia del comunismo, con la storia tragica che il “socialismo reale” aveva lasciato dietro di sé. Togliatti era già deceduto da quattro anni esatti quando, le 21 agosto 1968, le truppe del Patto di Varsavia avevano “appassito” nel sangue la “Primavera di Praga”; nel curriculum politico del Migliore gravava – solo per restare alla storia più recente – il 1956 (e quindi il suo passato al servizio di Stalin) quando i carrarmati avevano posto fine al tentativo di Nagy e del partito comunista ungherese di emanciparsi dal soffocante blocco sovietico.

De Giovanni, l’ideologo del cambiamento in atto, constatando la fine del comunismo dell’Est europeo, affronta di petto la “questione del Migliore”. Scrive: «Di là dalla complessità della sua ricerca, Togliatti è stato anzitutto uomo dell’Internazionale comunista. Egli ha creduto nella costruzione progressiva di un “campo” e vi ha partecipato attivamente; ha creduto – e ha lavorato a costruire delle idee – nella superiorità e nella vittoria finale del mondo nato dalla rivoluzione del 1917; ha contribuito a costruire internazionalmente l’unità dove essa veniva meno o faceva difetto; la sua passione politica, era sorretta dalla persuasione che l’antagonismo radicale capitalismo-comunismo tendeva a risolversi con la sconfitta epocale del primo. E ciò lo condusse ad una sorta di universale giustificazione di tutto ciò che costituì – dentro e fuori i confini dell’Urss – il terreno di una politica concreta. E questa politica fu, per tanti anni, quella di Stalin».

Affrontare Togliatti, il fondatore del “partito nuovo”, in quei termini era il preludio per il cambiamento del nome e quindi della natura stessa del partito.

Ma c’era un precedente. Lo ricorda Giuseppe Vacca, allora direttore, e poi presidente, dell’Istituto Gramsci di Roma: «Il primo atto significativo di Achille Occhetto, pochi giorni dopo la sua elezione a segretario, era stato quello di dare ampia diffusione al giudizio, pronunciato in un discorso tenuto a Civitavecchia [8 luglio 1988] in occasione dell’inaugurazione di un busto di Togliatti, secondo cui il fondatore del “partito nuovo” era stato “inevitabilmente corresponsabile di atti dell’epoca staliniana, piena di ombre per il movimento operaio».

Come Guido Moltedo, ricostruendo sulle pagine del “Manifesto” (26 agosto 1989), le fasi della polemica montante su Togliatti, sottolinea che le «due parole “inevitabilmente corresponsabile [allo stalinismo]” pronunciate da Occhetto a Civitavecchia, l’8 luglio 1988, nel discorso inaugurale ad un monumento dedicato al “Migliore”, non furono colte in tutta la loro portata…». Vacca stigmatizza come grottesca l’accusa di essere “inevitabilmente corresponsabile”, «perché già trentadue anni prima (nel Rapporto al Comitato centrale del Pci del 24 giugno 1956), Togliatti aveva già affrontato l’argomento in termini ben più schietti e puntuali, riconoscendosi “corresponsabile” della politica di Stalin, compresi i suoi atti “criminali”, senza invocare l’attenuante della “situazione oggettiva”».

Nonostante queste autorevoli prese di posizione contrarie al cambiamento della regione sociale, altri intellettuali, quali l’economista Michele Salvati e il filosofo Salvatore Veca, con un lungo articolo pubblicato sul penultimo numero della moribonda “Rinascita” (rivista fondato da Togliatti nel 1944), diretta da Franco Ottolenghi, dal titolo “Cambiare nome. E se non ora quando?”, sostengono le ragioni del cambiamento. La mancata soluzione di questo problema – affermano – sarebbe un ostacolo al pieno sviluppo delle potenzialità offerte dal nuovo corso. Ma un’altra ragione perché si cancelli la “gloriosa” sigla sta nell’esigenza di «accelerare un processo di chiarimento teorico-ideologico all’interno della militanza comunista». «I comunisti – si domanderà nel giugno del Novanta, Alberto Asor Rosa, quando il Pci era ancora la Cosa – sono (terribile interrogativo) ancora figli del ’21 e del ’17, oppure dobbiamo considerarci tutti quanti ab origine un’anomalia (per giunta non riuscita) della storia, di fronte alla quale non resta che rientrare nel binario abbandonato?».

È successo che nella seconda metà del 1989, proprio in coincidenza con il bicentenario della Rivoluzione francese, il destino dell’Urss era segnato. Al crollo del sistema politico seguì, fra l’ottobre 1989 e il maggio 1990, quello economico. La fine del ‘91 vide la sua dissoluzione. Intanto, nell’agosto dell’89 iniziarono a crollare i regimi comunisti di Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania (unico paese dove si sparò) Bulgaria e della Rdt. La glasnost e la perestrojka iniziate da Michail Gorbačëv, segretario della Partito comunista sovietico, nel 1985 tramontarono definitivamente nel dicembre 1991 quando la bandiera dell’Urss fu ammainata definitivamente dal Cremlino.

Il 23 agosto, Piero Fassino rilascia un’intervista al “Corriere della Sera” che conferma l’appoggio del giovane gruppo dirigente a quanto scritto da De Giovanni, domenica 20 agosto: «Voglio dire: è sciocco presentare questo articolo come l’abiura di Togliatti, perché noi non abbiamo mai avuto un cieco mito di Togliatti…».

Se questo sono gli antefatti di quello che verrà nel partito nei mesi successi, il 21 agosto, come ricordato all’inizio, è anche il 55° anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia (oggi suddivisa ora in Slovacchia e Repubblica Ceca) perpetrato dalle truppe del Patto di Varsavia.

Reggio Emilia con la Cecoslovacchia aveva relazioni strette a partire dal secondo dopoguerra quando diversi ex partigiani (tra cui Didimo Ferraro “Eros”) dovettero fuggire nel paese del “socialismo reale”, perché inseguiti da ordini di cattura, spesso, molto discutibili… Ma anche perché Gianetto Patacini, esponente del PCI – che nell’ottobre del 1969, diverrà segretario della federazione reggiana – e vicepresidente della Provincia di Reggio Emilia e assessore alla Programmazione economica, aveva stretto rapporti di amicizia con alcuni dirigenti politici e uomini di cultura del distretto gemellato di Olomouc (oggi in Repubblica Ceca). La firma del gemellaggio fra le due amministrazioni era stato siglato a Reggio Emilia nel settembre 1964.

 

Agli inizi del gennaio di quell’anno era stato eletto segretario del Partito comunista cecoslovacco Alexander Dubček, slovacco ed esponente dell’ala riformatrice, che aveva dato avvio a riforme economiche e sociali. Un cambiamento che Gianetto Patacini commenta positivamente scrivendo a Bohumil Macek, presidente del distretto amministrativo di Olomouc, il 30 gennaio 1968, e al professor Josef Gregor, segretario dell’Associazione per le relazioni internazionali di Praga il 15 febbraio 1968. Un processo che il Partito comunista italiano, guidato da Luigi Longo, memore dell’Ungheria 1956, aveva accolto favorevolmente.

In quel drammatico giorno, 21 agosto 1968, il Presidium dell’Assemblea nazionale cecoslovacca, inviò ai capi dei governi “fratelli” una dichiarazione di angosciosa protesta, in cui si ripudiava l’ingiustificata occupazione armata del Paese, che aveva violato la sovranità nazionale… «Ora, che nelle strade di Praga risuonano gli spari…», così inizia il documento.

La Giunta e l’Amministrazione provinciale, il Comune di Reggio Emilia e gli organi dirigenti del PCI presero immediatamente posizione condannando l’accaduto. Un errore e non un difetto congenito del sistema: è in sintesi la posizione del PCI.

Le drammatiche fasi dell’invasione Patacini le ripercorse in un colloquio con Macek, che incontrò a Olomouc nel maggio 1969, durante una visita ufficiale della delegazione reggiana. Le truppe del Patto di Varsavia, che nel pomeriggio del 21 agosto occuparono la città boema, costrinsero Macek «sotto scorta armata – a fare una dichiarazione alla radio locale, rivolgendo un appello ai cittadini perché accogliessero le truppe come forze amiche che venivano a ripristinare l’ordine socialista. Lo ha fatto premettendo che si trovava sotto scorta armata e che l’appello gli era stato richiesto. Durante la notte i giovani e i cittadini hanno coperto i muri della città di scritte contro l’intervento militare, al mattino la città era deserta, porte e finestre sbarrate, erano esposte solo bandiere nere in segno di lutto. Non avendo ottemperato i cittadini all’intimazione di ritirare le bandiere, queste vennero staccate a raffiche di mitra dai soldati, non vi sono state vittime … È stato un periodo terribile, la famiglia ha vissuto momenti di angoscia, malgrado tale situazione non ha pensato mai di abbandonare il Paese. “Forse, mi dice, si apre per me un periodo di ulteriori sofferenze ma qualunque cosa accada sono e resto comunista, il mio ideale è e rimane il socialismo”».

Il 24 agosto il Comitato federale del PCI reggiano si riunisce senza aspettare la riunione del Comitato centrale. V’è la premura di discutere, di prendere posizione. «Abbiamo ritenuto di fare questa riunione del Cf – afferma nella relazione il segretario della federazione reggiana Rino Serri – anche per ragioni di tempo, nel senso che rinviare il cf a dopo la riunione del comitato centrale, evidentemente noi avremmo lasciato passare troppo tempo, mentre tutto il partito sta discutendo nella provincia di Reggio…» .

Alla condanna politica dell’intervento seguiva, nell’analisi del segretario reggiano, la ricerca delle ragioni che avevano spinto l’Unione sovietica all’intervento, incompatibile con la democrazia socialista e con gli orientamenti del XX congresso del PCUS . Un errore, e non un difetto congenito del sistema. La critica all’invasione era forte, ma non abbastanza da rompere un legame lungo oltre sessant’anni. «Bisogna chiarire il fatto – afferma Serri – che il nostro dissenso, proprio perché nasce da un fatto politico ideologico, non oscura le conquiste storiche della società sovietica o del socialismo, e non mette in discussione, nel suo complesso, certo richiede un approfondimento e una valutazione, la superiorità del sistema socialista nei confronti del sistema capitalistico» .

Siamo costretti solamente ad accennare alle questioni e registrare che alla relazione del segretario non seguì nessun dibattito nel CF, il quale votò all’unanimità un documento che si richiamava alle «posizioni espresse nel comunicato dell’Ufficio politico, con le dichiarazioni del compagno Longo e con il comunicato della Direzione del partito» . Una posizione di condanna.

Pure la Giunta e l’Amministrazione provinciale presero immediatamente posizione per l’accaduto. Il pomeriggio del 21 agosto stesso uscì un comunicato della Giunta di condanna dell’invasione ; mentre il 29 si riunì il Consiglio provinciale che, con il voto favorevole dei soli gruppi consiliari di maggioranza, approvò un ordine del giorno che ricalcava nella sostanza il comunicato della Giunta del 21 precedente e inviò un telegramma di solidarietà al presidente del Distretto di Olomouc . Inoltre il presidente della Provincia, Franco Ferrari, espresse con una lettera l’«angoscia per ciò che sta[va] avvenendo» all’ambasciatore cecoslovacco a Roma».

I due avvenimenti visti in prospettiva insieme ad altri passaggi, avvenuti senza strappi, e forse forzando un po’ la storia di oltre vent’anni, possono indicare una strada, seppur ancora carsica, che emergerà due decenni dopo. Dopo le critiche all’invasione sovietica della Cecoslovacchia, sullo stato dei paesi dell’Est, per posizioni ascoltare ufficiali del PCI, occorre aspettare il 2 novembre 1977, quando Enrico Berlinguer a Mosca, in occasione del 60° della rivoluzione russa dichiara che il partito comunista italiano si batte per un socialismo che garantisca l’esistenza di diversi partiti, il pluralismo e tutte le libertà. Con il sopraggiungere degli anni ’80, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, Patacini (e il Partito) spende qualche parola critica in più. Occorre «sbarazzarsi – scrive il 1° marzo 1980, riportando il pensiero di Giorgio Napolitano espresso durante l’Assemblea dei segretari di sezione di Reggio Emilia – idalla convinzione che ogni critica ai paese socialisti sia un cedimento al nemico di classe, talvolta sono gli errori dei paesi socialisti ad aiutare l’imperialismo».