Cari amici,
il Vangelo di questa domenica ci propone la resurrezione di Lazzaro. Si tratta certamente di un miracolo straordinario, ma all’evangelista Giovanni interessa la realtà nascosta, della quale esso è “segno”. In altre parole, c’è qualcosa di più grande, che riguarda non più un solo uomo, ma tutti; anche se enorme, questo miracolo non risolve il problema della morte, perché Lazzaro un giorno morirà e anche noi moriremo.
Dunque, lasciamoci condurre da Gesù, per comprendere il grande mistero della morte e della vita.
La prima cosa da notare è che colui che risuscita Lazzaro e che mostra tanta potenza di vita è colui che sta andando a morire: i suoi apostoli ne sono ben consapevoli. Perché dunque Gesù intende pagare questo prezzo per la vita del suo amico?
Qui stiamo veramente entrando nel profondo del suo cuore: per lui la vita è “comunione”, perché è amore. Si può essere morti pur respirando e camminando, se siamo isolati nel nostro egoismo; si può, invece, fare della morte l’atto supremo del dono, dell’amicizia. Gesù dirà infatti: “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).
Ora, la domanda che ci viene proposta, e che chiede un atto di fede veramente coraggioso e definitivo, è questa: è più forte la morte o è più forte l’amore? Tutti noi vorremmo rispondere: l’amore. Ci rendiamo conto, però, che la realtà è spesso ben più grande del desiderio.
Marta ha studiato il catechismo. Sa che ci sarà la risurrezione, “nell’ultimo giorno”. Ma intanto, nel giorno presente, c’è quel masso così pesante, che rinvia tutto a un futuro ignoto e lontano. Gesù, però, insiste: “Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà”. A questo punto il lettore, che sa come va a finire la storia di Lazzaro, dice: “Certo, sappiamo che tu lo risusciterai; ma questo miracolo può consolare tutti coloro che oggi e fino alla fine dei secoli non avranno la fortuna di incontrarti?”.
Per questo Gesù aggiunge la frase più ardita, incredibile: “Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”. Come? Non moriremo in eterno? E allora tutto il dolore, le lacrime, le lacrime che persino tu, Signore, verserai per il tuo amico, non sono niente, sono apparenza?
Gesù ha già risposto, quando era entrato nella casa del capo della sinagoga, di Giairo, che lo supplicava per la sua figlioletta morta: “La fanciulla non è morta, ma dorme” (Mc 5,39): quella che noi chiamiamo morte non è morte, ma sonno. Dalla morte non ci si sveglia, dal sonno sì.
Ma oggi Gesù va oltre: egli fa della morte l’atto supremo della vita, la soglia da varcare, “il muro d’ombra”, come lo ha chiamato Ungaretti, per entrare nella luce. E questo già adesso: già adesso noi siamo dei risorti, l’uomo nuovo è già nato in noi con il battesimo. Dice san Paolo: “Consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo mortale… offrite voi stessi a Dio, come viventi, ritornati dai morti” (Rm 6,11-13).
In questi giorni notizie e immagini di morte entrano sempre più di frequente nella nostra giornata. Qualche giorno fa ho accompagnato al cimitero Magda, tanto cara a tutti noi.
Di fronte al prolungarsi dell’”emergenza”, ci chiediamo sempre più frequentemente: fino a quando? La prima settimana di chiusura è stata presa come un ammonimento; abbiamo pensato e qualcuno lo ha anche scritto, “forse ci voleva”. Ma la seconda e la terza settimana sono diventate una sfida: dovevamo resistere, dovevamo dimostrare di che pasta siamo fatti. Ma ora siamo alla quarta settimana, e il periodo della dimostrazione ci sembra finito.
Può essere che ora sorgano altri pensieri. Può darsi che la preoccupazione del futuro diventi logorante, che crei un certo sconforto. Oppure, facilmente, possiamo diventare irritabili con le persone a noi vicine, prendendo ombra anche per delle sciocchezze.
Il fatto è che non siamo abituati a dover riconoscere il nostro limite. Ci siamo abituati a pensare che per ogni problema ci sia una soluzione. Gli straordinari progressi della tecnica hanno aumentato il nostro orgoglio. L’umiltà, invece, si ritrova di frequente proprio in coloro che, come i medici e i sanitari, dispongono di questi strumenti ma ne conoscono anche i limiti.
Che cosa ci può aiutare a perseverare, a rimanere buoni, a riflettere sul senso di quello che sta accadendo, sugli ammonimenti che ne derivano? Credo che la medicina si chiami “compassione”. Il Vangelo di oggi ci mostra Gesù che piange. Egli è venuto perché tutti “abbiano la vita”: ma la via della vita è anche quella della croce, della fatica, della contraddizione, dell’incontro con il male e con la sua deformità, la stupidità, l’egoismo. Chiediamo al Figlio dell’Uomo di aiutarci a riconoscere sempre la grande dignità dell’uomo, di ogni uomo; la compassione fa grande ogni piccolo gesto, riempie le nostre giornate, illumina i momenti di sconforto.
Buona settimana, miei cari. Presto sarà Pasqua e non potremo celebrare le grandi e belle liturgie della Settimana Santa. Ma il Signore non ce ne farà mancare il frutto, che è la certezza del suo amore per noi e l’energia per perseverare nella carità.
Vostro don Giuseppe Dossetti
Unità pastorale “Santa Maria Maddalena” di Reggio Emilia
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