Che cosa cercate?

Don Giuseppe Dossetti

Quarantaduesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus

Giovanni il Battista vede passare Gesù e lo indica a due dei suoi discepoli: “Ecco l’Agnello di Dio!”. Costoro seguono Gesù, che si volta e pone loro una seria domanda: “Che cosa cercate?”.

Forse soltanto i poveri potrebbero rispondere con una certa facilità: cerchiamo un po’ di tranquillità, un lavoro, la salute, un piccolo avvenire per i nostri figli. Ma questo non basta a tante persone: nell’uomo c’è una confusa ricerca, spesso non consapevole, di qualcosa che non potrebbe essere definito.

Il moralista giudica severamente comportamenti come la ricerca di potere e di denaro, senza limiti e senza scrupoli. Ma cosa sta dietro a tutto questo? Le acque, alle quali ci si rivolge, sono avvelenate, ma dobbiamo riconoscere questa sete, non possiamo rispondere semplicemente: “Accontentati!”. La domanda di Gesù ci mette di fronte a noi stessi, ci costringe a essere sinceri, magari riconoscendo sinceramente che non sappiamo che cosa cerchiamo. Potremmo usare la parola “felicità”, se non fosse una parola della quale ci vergogniamo.

I due discepoli di Giovanni non rispondono; fanno a loro volta una domanda: “Dove dimori?”. Il verbo greco dà l’idea della stabilità. I due hanno intuito una cosa importante: la risposta alla loro sete non sta in un oggetto, ma in una relazione.

È una buona indicazione anche per noi: non è l’avere, il possedere, che può saziare la sete dell’uomo, ma l’incontro con l’altro, con un Tu, che ci stia a fronte non come rivale, ma come fonte di consolazione, come rimedio alla nostra solitudine. Come siamo felici quando possiamo disporre di un luogo dove “dimorare”, dove sperimentare fiducia, dove veniamo accolti e accettati!

Potrebbe essere, questa, una buona indicazione anche per la politica: la buona politica è costruire comunità, creare luoghi di solidarietà, promuovere la legalità come condizione per la fiducia reciproca; perfino la politica estera, secondo questo principio, dovrebbe essere promozione di incontro e di mutualità tra i popoli.

“Dove dimori, dove hai la tua stabilità?”, potremmo chiedere all’uomo che ci sta di fronte. Forse anche lui non ha una dimora, anche lui vive nella provvisorietà: tuttavia è proprio l’incontro di due povertà che può generare un “luogo”, un’amicizia che ci accompagni nella comune ricerca.

Gesù, a sua volta, non risponde direttamente alla domanda dei due. Egli fa loro una richiesta, meglio ancora, rivolge loro una sfida: “Venite e vedrete”. C’è un prezzo da pagare, un rischio da prendere. Non si tratta solo di lasciare sicurezze e abitudini, ma soprattutto di mettere in discussione se stessi, accettare la propria incompletezza, consegnarsi nelle mani di un altro. Chi è questo altro? Giovanni lo ha chiamato l’Agnello di Dio.

Per un ebreo, l’immagine richiamava subito l’Esodo, la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto: l’angelo della morte passò per le case degli egiziani e i primogeniti morirono. Gli ebrei no, perché qualcuno li salvò con la propria morte: l’agnello, col cui sangue vennero tinte le porte di coloro che poi ne mangiarono le carni, per iniziare così il cammino della libertà.

Potrà essere questo agnello la risposta alla ricerca dell’uomo? Non ha a disposizione forza, denaro, non risolve i problemi della casa e del lavoro, non guarisce le malattie. Addirittura lo vedremo crocifisso, come l’ultimo degli uomini. Eppure egli ha la pretesa di dire a ciascuno di noi chi siamo veramente, come a Cefa, al quale impone il nome di Pietro.

Penso che anche uomini potenti e ricchi prima o poi scoprano la propria povertà: la solitudine, la precarietà della condizione umana. Se si guardano intorno, però, troveranno vicini a sé molti “agnelli”, uomini e donne segnati dalla sofferenza: stiano loro vicini, e scopriranno di essere, in qualche modo, misteriosamente arricchiti da loro.

Può anche darsi che questi agnelli conducano all’Agnello, che ha preso su di sé il peso di tutto il male del mondo. In quel giorno sentiremo pronunciare il nostro nome, quello vero, quello che dà significato alla nostra vita e la ricerca si placherà, nella certezza che siamo guidati da una volontà buona, che ci sorregge nei passaggi difficili e che sa trasformare anche il male in bene, che ci libera dalla paura e dall’odio.

Non sono le religioni a essere causa di intolleranza e di morte: questo avviene quando l’uomo pensa di avere Dio in tasca, di essere legittimato a rappresentarlo e a difendere i suoi diritti. Ma Egli si presenta a noi come l’agnello: le sue ferite dovrebbero costringere tutti a chiedersi: “Che cosa cerco? Che cosa ha valore per me? Chi sono io?”; ma anche: “C’è una mia responsabilità per quelle ferite?”. E, infine: “Se tutti noi, se tutto il male del mondo è caricato su di lui, posso forse io disprezzare me stesso o disprezzare un altro essere umano?”.