Reggio liberata: riprende la vita democratica, la politica diventa fenomeno di massa

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di Ferruccio Del Bue

Reggio Emilia venne liberata alle 16.30 del 24 aprile 1945, anche se si continuarono a sentire raffiche di raganella fino a notte fonda.
I fascisti per larga parte si diedero alla fuga assieme ai tedeschi, alla ricerca di nascondigli provvisori. I reggiani aspettarono con ansia e trepidazione l’arrivo dei partigiani. Molte donne si legarono al collo un fazzoletto rosso o tricolore. I primi ad arrivare in città furono un gruppo di giovani delle Fiamme Verdi. Seguirono formazioni di Gap dalla pianura e di Sap dalla montagna. Dai tetti del centro storico e della periferia qualche cecchino aprì il fuoco.

A San Pellegrino, non distante dalla chiesa (è posata una lapide), venne ucciso un partigiano, mentre in centro storico, in via Ariosto, scoppiò una bomba.

Il Cln di Reggio Emilia

Augusto Berti (Monti), il comandante generale dei volontari per la libertà, entrò a Reggio Emilia quella sera stessa del 1945 in compagnia di Didimo Ferrari (Eros), comunista e commissario generale delle brigate Garibaldi, e Pasquale Marconi (Franceschini), cattolico Dc e vicecommissario delle Fiamme Verdi. Era circa il crepuscolo quando i componenti del Cln si riunirono nel palazzo del governo per adottare le prime misure di quella che fu una lottizzazione democratica: la nomina del prefetto, del sindaco di Reggio Emilia e la trasformazione del quotidiano “Il Solco Fascista” in “Reggio Democratica”.

Prefetto della città fu scelto nella figura dell’azionista e avvocato Vittorio Pellizzi, mentre il ruolo di primo cittadino spettò all’operaio e comunista Cesare Campioli. Come comunista fu pure il primo direttore del rinnovato quotidiano cittadino, l’intellettuale e avvocato Giannino Degani.

Il sindaco di Reggio Emilia Cesare Campioli

Si trattava di accordi intervenuti già nel settembre del 1944, come quelli riguardanti la nomina di un presidente della Provincia di marca socialista, Camillo Ferrari, e dei suoi 2 vice: Riccardo Cocconi, e Giovanni Manenti (quest’ultimo già deputato del Partito popolare nel 1921), uno comunista e l’altro democristiano.
Così come del resto era cattolico pure il nuovo provveditore agli studi, Ettore Lidner.
Alle prime ore dell’alba giunsero in città, dopo essere stati trattenuti alle porte di Reggio Emilia (il primo dai tedeschi e il secondo dagli alleati), il neo sindaco Cesare Campioli e il neo prefetto, Vittorio Pellizzi.

Il prefetto di Reggio Emilia, avvocato Vittorio Pellizzi (PdA)

Naturalmente, chi comandava davvero era l’autorità alleata, che doveva valutare e convalidare quelle scelte fatte e avanzate dagli antifascisti. E gli inglesi lo fecero sì, ma solo dopo avere preso informazioni sul conto delle persone nominate. Chi aveva tutti i poteri del caso era il tenente colonnello I.L. Radice, funzionario del Foreign Office britannico, che si insediò all’alba del 25 aprile. Scrisse a tale proposito Vittorio Pellizzi che nulla si sarebbe potuto fare, almeno nei primi 6 mesi, senza il consenso dell’Allied Military Governement. Tant’è che in Emilia-Romagna il governo italiano riconquistò la sovranità solo a partire dal 5 di agosto.

Tra i primi atti del pomeriggio del 25 aprile vi fu la ricostituzione degli uffici della questura, per la quale il Cln indicò all’autorità alleata la nomina del funzionario Pietro Lotti a questore, ma anche di Davide Valeriani (Formica), comunista, e Gottardo Bottarelli (Bassi), democristiano, a vicequestori.

Mentre solo qualche tempo dopo, era il 10 di maggio, il Cln dispose l’assunzione di 60 agenti aggiunti nelle forze dell’ordine che furono così suddivisi: 20 provenienti dalla 37esima brigata Gap, 20 dalle Fiamme Verdi e altri 20 dalle brigate Garibaldi. Mentre il giorno dopo, cioè l’11 maggio, Eros (Didimo Ferrari), dispose la riduzione dell’organico della polizia partigiana, dei mille combattenti ne rimasero in servizio 708: dei quali 608, divisi in gruppi di 12 o 20, con il compito di operare presso le caserme dei carabinieri, e i rimanenti cento, sempre alle dipendenze dei militari, ma disarmati.

Il presidente provinciale dell’Anpi Didimo Ferrari (Eros), comunista

Se in città tutto questo avvenne tra il 24 e il 25 di aprile del ’45, nella provincia reggiana le cose andarono diversamente. Qui, infatti, la liberazione si consumò in tempi diversi e a macchia di leopardo, come scrisse Giannetto Magnanini. Capitò anche che, dopo l’occupazione partigiana e alleata, si verificassero aspri scontri con i tedeschi. Risulta, per esempio, che a Fosdondo di Correggio i nazisti ritornassero il giorno dopo la liberazione per uccidere 8 cittadini.

Nel Reggiano l’ordine di attaccare il nemico fu dato dal Cln il 21 di aprile: il 22 iniziò l’offensiva, e in 3 giorni fu completata la liberazione della provincia. Lo stesso 22 di aprile, due giorni prima della presa di Reggio Emilia, vennero liberati molti comuni della Bassa reggiana. Una volta ricostituito il clima democratico e nominate le nuove autorità, anche i partiti da essi rappresentati ripresero vita.
Questo accadde, se si esclude la parentesi che va dal 25 luglio fino all’8 di settembre, dopo oltre vent’anni d’assenza.

Ovviamente i rancori portati dalla guerra non furono sopiti con un colpo di bacchetta magica. Gli odi personali fra chi si era combattuto su diversi fronti, pur essendo oggi magari vicino di casa di quello che fino a qualche mese prima si era ritenuto il nemico, erano ancora forti. E così gli atti di violenza che si susseguirono nella provincia di Reggio Emilia, spinsero il colonnello inglese I. L. Radice a prendere provvedimenti: i responsabili di attentati o intimidazioni sarebbero stati trattati alla stregua di delinquenti comuni, ordinò il militare britannico. Poiché nei primi giorni dopo la liberazione, aggiunse il comandante delle forze alleate in città, “abbiamo visto, certo non con piacere, ma con comprensione, le centinaia di cadaveri di fascisti nei fossati della campagna. Anche noi intendiamo sia abbattuto il fascismo che ci ha fatto la guerra”. Purtroppo, però, le “uccisioni sono continuate e continuano. Peggio: non si tratta più di soli fascisti, ma anche di persone uccise per odi o vendette personali”.

Affollata piazza Prampolini

La questione della sicurezza fu una delle naturali emergenze da affrontare appena raggiunto il cessate il fuoco. Bisogna tenere in conto che molte persone erano ormai abituate alla presenza delle armi o a girare armate. Per non parlare delle formazioni partigiane, alle quali fu chiesto di consegnare pubblicamente l’artiglieria, ma quello fu un invito che accolsero in pochi.

Per citare alcuni esempi in proposito, basti ricordare che trascorsi molti anni da quei fatti, Ermanno Gorrieri (il partigiano Claudio), uno dei capi dei cattolici della resistenza modenese, successivamente un sindacalista fustigatore della giungla distributiva, raccontò: “Il 25 aprile noi (i cattolici e i comunisti) scendemmo dalle montagne come amici, ma già da avversari politici. Non consegnammo le armi – ammise – perché pensavamo di riprenderle nell’eventualità di un’ora x (in caso rivoluzione comunista, ndr)”.

Ma allora il pacifista reggiano Giuseppe Dossetti, che cosa pensò di quei fucili nascosti? “Nell’ottobre del ’43 – racconta Gorrieri – gli riferii che avevamo depositi di munizioni sottratti ai tedeschi”. “Era un capo partigiano, presidente del Cln di Reggio, Dossetti fu messo al corrente di tutto – recitò nelle sue memorie il partigiano bianco – anche delle armi”.

Giuseppe Dossetti al tavolo di lavoro, prepara il discorso di Rossena

Vittorio Parenti, socialista e partigiano Nico, presidente della Provincia di Reggio Emilia dagli anni Settanta agli Ottanta, poi a capo dell’Istituto storico delle resistenza, ebbe a ricordare: “Pochissimi, anzi quasi nessuno, a liberazione avvenuta consegnò le armi. O comunque vennero deposte solo quelle o troppo rovinate o troppo ingombranti. Mentre ben nascosti nelle campagne e nei boschi della Bassa sono rimasti gli arsenali, pronti per essere dissepolti in caso di golpe”.

Indicativo del clima il racconto che fece Spartaco, alias il comunista reggiano Walter Sacchetti, negli anni a seguire politico e manager di successo, prima presidente della Camera del lavoro di Reggio Emilia, poi capo cooperativo alla guida delle Cantine Riunite, senatore della Repubblica, e infine dirigente sportivo, presidente della Reggiana in serie A e della Pallacanestro sponsorizzata col lambrusco. Tramanda ai posteri il senatore Sacchetti: “Il 25 aprile attraversavo il fiume Elsa, e avevo con me 2 pistole: una Beretta piccola e una presa ai tedeschi. Volevo chiudere con il passato: ho gettato le 2 pistole nel fiume, e non me ne pento”. Però, chiude Sacchetti, “molti anni dopo raccontai di quell’episodio a Giancarlo Pajetta (il ragazzo rosso del Pci). E lui, per tutta risposta: del coglione mi ha dato”.

E pure l’insospettabile e fervente cattolico Sereno Folloni: studi in teologia, diacono e scrittore, designato nel Cln dalla Dc, padre dell’ex senatore e ministro Guido Folloni, ebbe a rivelare che la Democrazia cristiana aveva predisposto un piano per riarmarsi.

Gioia per la ritrovata libertà, armi e rancori. Una miscela esplosiva di umori felici e animi malmostosi, tumulto di sentimenti contrastanti. In quei giorni la fine marcava l’inizio: la fame cercava ristoro nella speranza, il pianto della sofferenza si tramutava in lacrime di gioia, mentre la voglia di riappacificazione in alcuni casi si mescolò alla rivalsa, che a volte sconfinò in vendetta.

Ritornando alle questioni della politica, una prima manifestazione pubblica si tenne al teatro Ariosto il 26 di aprile. Dal pulpito del Politeama presero la parola il sindaco Cesare Campioli, il democristiano Pasquale Marconi, l’azionista Virgilio Camparada e il comunista Piero Montagnani.

Il democristiano Pasquale Marconi, un leader della resistenza in montagna con le Fiamme Verdi

Di li a breve si celebrò, dopo oltre 20 anni di silenzio, la manifestazione del primo di maggio, la festa dei lavoratori. Fu indetto e si svolse un comizio in piazza della Vittoria al quale accorsero e parteciparono migliaia di persone. Parlarono, fra gli altri, l’ex commissario comunista delle brigate Garibaldi e prossimo capo dell’Anpi provinciale, Didimo Ferrari (Eros) e il vecchio deputato socialista Arturo Bellelli, unico sopravvissuto, quindi ultimo indiano della vecchia guardia prampoliniana.

Durante il ventennio mussoliniano il solo partito a mantenere e sviluppare una sua articolata organizzazione fu il Pci. E il suo consolidamento a spese del Psi, che a Reggio Emilia era di gran lunga il più forte partito dell’epoca prefascista, aveva iniziato a manifestarsi già nel corso degli anni Trenta. Il vecchio Partito socialista, infatti, aveva praticamente cessato di esistere con lo sfaldamento della sua organizzazione nel tempo che seguì la marcia su Roma: la rete cooperativa, le amministrazioni democratiche, il sindacato e anche il suo giornale, “La Giustizia”.
Quasi tutti i dirigenti socialisti: da Camillo Prampolini, a Giovanni Zibordi, da Amilcare Storchi, ad Arturo Bellelli, lasciarono Reggio Emilia tra il 1925 e il 1926. Così, all’indomani della liberazione, fu implicito che il Pci, a cui fu accordata la designazione del sindaco della città, fosse il partito guida.

Camillo Prampolini, il santone del socialismo reggiano

Venendo alla nuova mappa cittadina dei centri di potere, la nuova federazione comunista prese asilo nello stesso stabile della vecchia federazione fascista, in via Cairoli (da dove verrà sfratta nel 1951). Segretario del Pci era allora Arrigo Nizzoli (Lino, condannato nel 1951 al processo di Ancona sul caso Vischi e poi riemerso anni dopo quale segretario amministrativo del Pci a Ferrara), attorniato da più vecchi e più giovani dirigenti, tra i quali Cesare Campioli, Aldo Magnani, Attilio Gombia (il quale sostituì Luigi Tagliavini alla Camera del lavoro), Arrigo Negri, Riccardo Cocconi e Didimo Ferrari (Eros), quest’ultimo, come già detto, prossimo presidente provinciale dell’Anpi, carica di primissimo piano, allora più importante di quella del sindaco o del segretario di partito.

Comizio di Arrigo Nizzoli (Lino), segretario provinciale del Pci di Reggio Emilia e poi segretario amministrativo a Ferrara

Il Pci diede vita, a partire dal 21 di maggio del 1945, a un settimanale, “La Verità”. Mentre il periodico dell’Anpi si chiamava “Il Volontario della Libertà”, e uscì dal 5 maggio, dopo un primo e unico numero clandestino pubblicato il 22 aprile 1944. Era diretto da Didimo Ferrari (Eros).

Il Psi, che allora si chiamava Psiup, fu il risultato diretto dell’unificazione del vecchio Psi di Pietro Nenni e Rodolfo Morandi con il Mup (Movimento di unità popolare), fondato da Lelio Basso. Prese sede a palazzo Corbelli, fino ad allora alloggiato dall’Unione fascista degli industriali. Leader di quella forza politica divenne Alberto Simonini, che già nel periodo prefascista era un dirigente socialista provinciale.

I vecchi capi socialisti erano allora quasi tutti morti: Camillo Prampolini nel 1930, Antonio Vergnanini nel ’34, Giovanni Zibordi nel ’43, Amilcare Storchi nel ’44. Come ricordato, solo Arturo Bellelli era sopravvissuto alla fine della guerra, e questi assunse la presidenza della Federazione delle cooperative.

Rinacque la gloriosa testata “La Giustizia”, era il 13 di maggio 1945, grazie all’iniziativa di Ugo Bellocchi, e sotto la direzione di Alberto Simonini.

Il socialista Alberto Simonini

Riguardo le cariche politiche e cittadine, Giuseppe Rinaldi fu il primo vicensindaco socialista di Reggio Emilia, ma morì poche settimane dopo il suo insediamento mentre teneva un comizio al circolo Zibordi. Alberto Simonini divenne invece il segretario del Psiup, coadiuvato nel ruolo da Gino Prandi, che aveva subito dai fascisti una condanna a morte, fortunatamente non eseguita per i condannati (tranne che per il comunista Angelo Zanti), e da Pietro Marani, il quale subentrò come vicesindaco di Reggio Emilia al prematuramente scomparso Giuseppe Rinaldi.

La Democrazia cristiana, che prese sede nella centralissima via Guidelli, nei locali dell’ex Unione fascista degli agricoltori, aveva in Giuseppe Dossetti e Pasquale Marconi i dirigenti più in vista e conosciuti già dai tempi della lotta di liberazione.

In particolare fu forte per i democristiani il carisma esercitato da Giuseppe Dossetti, per quella sua posizione sempre attenta ai temi sociali. Dossetti fu anche presidente provinciale del Comitato di liberazione nazionale, carica dalla quale si dimise in seguito alla chiamata di Alcide De Gasperi che lo volle a Roma quale vicesegretario nazionale della Dc.

Il fratello di Giuseppe, Ermanno Dossetti, partigiano delle Fiamme Verdi, fu invece eletto segretario del partito cattolico reggiano. Mentre dalla clandestinità riapparve anche il dottore agrario Carlo Calvi, il primo vicesindaco della città di marca democristiana e in seguito dirigente liberale.

A partire dal 10 giugno del 1945 venne pubblicato il giornale del partito “Tempo Nostro”, diretto da Domenico Piani, ex rappresentante cattolico nel Cln clandestino.

Sempre in tema di informazione, i partigiani cattolici e liberali che avevano dato vita alle Fiamme Verdi, a partire dal 24 agosto 1945, pubblicarono il giornale “La Penna”, già noto tempo di guerra e diretto da Eugenio Corezzola (Luciano Bellis), che poi da settembre ne mutò il nome in “La Nuova Penna”.

Il Partito d’azione, poi, era davvero nuovo. Era sorto solo 2 anni prima, dopo una riunione di antifascisti, per la volontà, tra gli altri, di Ferruccio Parri, Piero Calamandrei e Riccardo Lombardi.
A Reggio Emilia i maggiori dirigenti azionisti furono Vittorio Pellizzi, che assunse l’incarico di prefetto cittadino, Virginio Camparada, primo segretario provinciale del PdA, Ubaldo Morini (Caput), già redattore dei “Fogli Tricolore”, Fernando Manzotti, Anton Lorenzo Motti e altri intellettuali e professionisti.
Il PdA pubblicò il giornale “l’Azione” (10 giugno del 1945), che ebbe quale direttore Ubaldo Morini.

Dopo la liberazione del reggiano presero forma anche altre forze politiche, meno forti nei numeri, ma di tradizione: il Partito repubblicano, guidato da Dino Tarroni, il Partito liberale di Carlo Morandi, il Partito democratico del lavoro di Gino Montessori e il Partito democratico monarchico di Riccardo Pistelli.

Il Pci, che aveva sostenuto gran parte del peso della resistenza, con la sua capacità di organizzarsi nella clandestinità e per il coraggio dimostrato dai suoi dirigenti, alla fine del conflitto fu il primo partito di Reggio Emilia. Per consenso, ai comunisti, seguirono i socialisti, che erano divisi in 2 correnti: quella fusionista, che chiedeva il partito unico con Pci e Psiup, e quella autonomista, che al contrario voleva tenere ben distinta una storia tutta interna alla sinistra.

Un articolo di Alberto Simonini su “Reggio Democratica” illustrò un’alleanza “solida e stretta” tra i due partiti di sinistra che si presentarono alle elezioni con un patto d’unità d’azione che nulla avrebbe potuto spezzare. Anche se non si può nascondere che lo stesso Alberto Simonini, già dall’inizio, fa subito contrario al progetto di fusione tra Psiup e Pci. Cosa che peraltro gli rimproverò pubblicamente il sindaco di Reggio Emilia, Cesare Campioli, dalle colonne de “La Verità”: “Noi abbiamo ragione di ritenere che qualche ritardatario all’interno del Partito socialista sia poco incline all’orientamento che il suo partito si è dato sino dai tempi della cospirazione. E non è quindi un caso che, dopo il suo arrivo, i rapporti sereni e costanti che esistevano tra noi, nel corso della lotta clandestina, siano completamente cambiati. Ma oggi in Italia non vi è più spazio per 2 organismi. Il Partito unico della classe lavoratrice è una delle aspirazioni più sentite dal popolo italiano”.

Nilde Iotti al funerale di papà Alcide Cervi

Il terzo partito, come già accennato, era la Democrazia cristiana, che poi però riuscì a sopravanzare il Psiup alle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946.

Tuttavia, trascorso poco meno di un anno dopo dalla liberazione, era il marzo del 1946, comunisti e socialisti, assieme, erano capaci di fare il vuoto nelle urne. Il Fronte popolare (i cosiddetti socialcomunisti) nella provincia di Reggio Emilia conquistò 42 comuni su 45.
Il primo di aprile fu proclamata la vittoria delle forze di sinistra anche nel comune di Reggio Emilia.

I voti dichiarati, anche se nel tempo subirono lievi variazioni, furono: al Pci (28.489), Psiup (16.577), Dc (14.723), Concentrazione democratica (1.391).
Mentre per quanto riguarda i seggi conquistati in Sala del Tricolore, erano così suddivisi: comunisti 19, socialisti 11, democristiani 10. Mentre fra le preferenza personali di lista spiccò il primo cittadino comunista Cesare Campioli (1.349), il leader socialista Alberto Simonini (953), che però nel suo partito fu superato dal vicesindaco Pietro Marani (963). Infine oltrepassò la soglia dei mille voti personali (1.046) il democristiano Giuseppe Dossetti.

Tra i tribuni eletti dal popolo, fra gli altri, si fregiarono del titolo di primi consiglieri democratici del dopoguerra nella rinnovata Sala del Tricolore, i comunisti Cesare Campioli, Nilde Iotti, Didimo Ferrari, Arrigo Nizzoli, Riccardo Cocconi, Avvenire Paterlini.
I socialisti Alberto Simonini con il fratello Renato, Arturo Bellelli e Pietro Marani, e i democristiani Giuseppe Dossetti e Domenico Piani.

La vita democratica di Reggio Emilia era finalmente ripartita e la politica divenne un fenomeno di massa.



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  1. Ivaldo Casali

    A proposito di “Reggio liberata: riprende la vita democratica”…

    IL 18 APRILE 1948 L’ITALIA DIVENNE DAVVERO LIBERA!
    Il 25 aprile di ogni anno viene celebrata, egemonizzata e strumentalizzata, la data della Liberazione da parte della sinistra Pd, postcomunisti ed associazioni partigiane. Nulla viene invece ricordato riguardo al 18 aprile 1948 che segnò la vera conquista della piena libertà dell’Italia e la fine della mattanza dei cosiddetti “liberatori” che, in particolare dall’aprile 1945, nelle Regioni del Nord Italia, compirono massacri e atrocità nei confronti di migliaia di persone innocenti.
    Chi come lo scrivente ha potuto essere informato dai genitori e parenti, che hanno vissuto quell’epoca, ed anche per aver letto i libri di Giampaolo Pansa e Gianfranco Stella (cito solo questi due di opposto orientamento politico) può essersi reso conto delle violenze inaudite compiute, soprattutto, a guerra terminata.
    La conquista della vera libertà l’ha dobbiamo ad uno statista come Alcide De Gasperi che riuscì a vincere le Elezioni politiche contro il Fronte Popolare delle sinistre e, successivamente, ad ottenere il Piano Marshall dagli Stati Uniti.
    Come non ricordare la frase ad effetto, durante la campagna elettorale del 1948, dello scrittore Giovannino Guareschi: “Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”.
    Grazie a questa opportuna e decisa scelta anticomunista, nell’alveo occidentale democratico, l’Italia ebbe le risorse economiche necessarie per la ricostruzione dopo la disastrosa 2° Guerra Mondiale.
    Cav. Ivaldo Casali


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