Nuovo singolo di Sara Loreni: ‘Neve di maggio’

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Succede, che la magia della quotidianità sia turbata da eventi eccezionali.
Succede, come la “Neve a Maggio”, il nuovo singolo di Sara Loreni, che torna a calcare la scena aprendo un nuovo capitolo nella sua vita artistica.

Performer, producer e cantautrice – per tanti ‘la ragazza con la loop station’ che rinunciò alla sedia di X-Factor nel 2015, con quella erre rutilante tipica di Parma – che sopraggiunge, improvvisa, proprio come “Neve a Maggio”, avvolta da un’elettronica elegante e dal sapore internazionale, per raccontare l’inconsueto, in questi giorni caratterizzati da forti anomalie e fredda solitudine.

Sara, sei il fiocco di neve impalpabile e silenzioso che si abbandona a terra; o sei la rosa sbocciata, improvvisamente accecata da questo riflesso bianco che la copre inaspettatamente?

“Credo di preferire la seconda” (ridendo).

“Neve a Maggio” – quindi – è più un abbandonarsi alla solitudine; l’avvertire un senso di paura nell’imprevisto; o la speranza che si nasconde sotto la coltre bianca, dove continua a pulsare la vita nonostante lo sbigottimento?

“Io sarei per una quarta opzione: nella canzone sono stupita per quello che sta accadendo e ogni forma di stupore porta con sé anche una sorta di paura. C’è lo spavento, ma è quasi piacevole nel momento in cui si contestualizza. In qualche maniera credo che lo stupore sia il giusto spazio in cui si aprono le prospettive”.

La musica è un coadiuvante all’apertura di nuovi scenari. Può esserne anche la cura?

“Assolutamente, sempre”.

Citandoti, ti rigiro la domanda: vorrei fotografare il momento in cui hai scritto questo testo. “C’è qualcosa che non va, come la neve a maggio”: cosa ti ha fatto sentire, anche per un attimo, inerme?

“Diciamo che essendo una persona piuttosto meteoropatica, ho accusato fortemente la nevicata dello scorso anno, quella del 5 maggio.


Più in generale, sono diventati motivo di riflessione i paradossi, che ho sempre amato; tutti gli aspetti che nella realtà stridono, dentro e fuori di me. La nevicata, assolutamente inaspettata e fuori stagione, che se da una parte è meravigliosa, dall’altra diventava una sorta di violenta interruzione della primavera, dolorosa per i boccioli già esplosi, in fiore.
Parallelamente, mi sono interrogata su queste grandi esibizioni sociali virtuali – che in particolare in questo periodo impazzano – in contrapposizione alle grandi solitudini, reali, che viviamo quotidianamente. E’ una sorta di paradosso che si è manifestato in tutta la sua forza, in tutta la sua potenza e non sempre piacevole”.

Testo, musica e voce sono tuoi, mentre la produzione è di Paolo Fappani. La squadra di lavoro è la stessa degli esordi, o in questi anni è cambiata?

“E’ cambiata, ma è un po’ il corso naturale di tutte le cose; fa parte del gioco e del cammino che intraprende ognuno di noi. Negli ultimi anni ho cominciato io stessa a fare le pre-produzioni a casa: “Neve a Maggio” è nata così, lo scheletro ha preso vita a casa, poi è stata finalizzata in studio, con le attrezzature e tutti i crismi del caso”.

Dall’esperienza come corista di Capossela alla rinuncia alla sedia di X-Factor, passando per “Mentha”, il tuo primo disco, sono passati diversi anni, in cui hai approfittato per diplomarti al conservatorio. Cos’è successo ancora, nel quotidiano di Sara Loreni?

“C’è stato un cane: era una vita che lo desideravo e finalmente l’ho adottato. Ne ho avuti diversi, ma erano sempre dei fidanzati, delle amiche, dei parenti. Io amo gli animali di tutti i tipi, ma questo è mio. E’ una trovatella siciliana, ha ormai un anno e mezzo, è stupenda ed è una grandissima assistente: quando compongo, scrivo, provo, lei si mette in studio con me, si accuccia e dorme. Scappa solo quando i rumori iniziano ad essere fastidiosi.
In questi anni di ricerca, chiamiamola così, ho preso consapevolezza di tante cose: ho collaborato con diversi autori, a livello di scrittura; non mi sono mai fermata, è sempre stata una fucina piuttosto in movimento. Nel 2017, poi, è uscito un disco di Cristina Donà in cui ho partecipato facendo una mia personalissima versione di “Labirinto”. Anni decisivi ad una presa di coscienza sempre più inequivocabile di quella che era la mia poetica e di quelli che volevo fossero i miei punti di riferimento. Ho dovuto fare tabula rasa e buttare tante cose. Altre le conservo nel cassetto: aspettano di prendere probabilmente una forma diversa. Sono stati anni molto intensi e fondamentali. Adesso finalmente ho parecchie canzoni dalle quali mi sento rappresentata e che sono davvero contenta di avere scritto”.

Ti esibisci da sola, ed è un punto di forza: loop station, synth, standalone. Tutt’altro che scontata, hai una scrittura che unisce il pop all’elettronica, restituendo alfabeti sonori che mettono in equilibrio i contrasti.
Sei un “prodotto”, passami il termine, dal sapore internazionale e all’estero hai già suonato. Hai mai pensato di trasferirti?

“Da una parte ci ho pensato, dall’altra sono piuttosto legata ai luoghi in cui sono nata e cresciuta e non ho mai avuto lo slancio di dire ‘prendo e mi trasferisco’. Se ci dovesse essere la possibilità, non credo che avrei grossi problemi a farlo, ma non sono mai riuscita a far partire da me l’impulso”.

Quali sono le figure retoriche che ti affascinano di più?

“Ce ne sono diverse. Sicuramente le onomatopee, perché lavorando sui suoni delle parole, tutto quello che ricorda qualcosa anche senza nominarlo direttamente, mi affascina moltissimo. C’è ad esempio una parola in dialetto emiliano che mi fa ‘volare’ da sempre. Non saprei scriverla, ma la sentivo dire dai contadini, nei campi: la bissa scudleda, una biscia con la scodella per tradurlo alla lettera, la tartaruga.
Ci sono parole che già dal suono sono molto evocative e che anche se non sai cosa significhino, le visualizzi. Non onomatopee in senso stretto, ma parole con una forza che ti riescono a comunicare il significato anche oltre la mera comprensione.
Poi, la sinestesia, che unisce parole appartenenti a campi semantici differenti. In buona sostanza, mi piace tutto quello che può creare un corto circuito, una contraddizione, un paradosso che ti stupisce subito, che ti fa drizzare le orecchie, che desta attenzione”.

Che farai domani, quando tornerà a splendere il sole e torneremo a stringerci le mani? Progetti per il futuro?

“Ti dirò, vorrei continuare a fare le stesse cose che sto facendo adesso, perché questo periodo di reclusione mi ha portato a quel livello di essenzialità nelle quale ho scoperto una grande pace e una grande soddisfazione, ma con più cognizione, con senso di gratitudine.
Lavorare in maniera focalizzata, concentrata su scrittura, lettura, studio mi ha aperto veramente un nuovo scenario. Mi manca moltissimo il fatto di poter vedere le mie amiche, le cene, le uscite; mi mancano i concerti, che sono ovviamente saltati come a tutti; ma vorrei ricominciare a fare le cose che ho sempre fatto con più consapevolezza, senza darle per scontato, perché spesso le cose che si fanno quotidianamente si danno per scontate e si perde il gusto di farle. Ho persino dimenticato quello che facevo tutti i giorni, anche se nelle prime settimane di quarantena ricordo perfettamente che mi è mancato moltissimo l’andare a prendere il caffè al bar, qui all’angolo: due chiacchiere con il barista di fiducia, la brioche, questa ritualità, a cui nei giorni normali dai poca importanza, si è trasformata in urgenza, in necessità”.