1980, quei giorni coi terremotati d’Irpinia

San Mango sul Calore

Centotrentunesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus e della guerra

Era il 23 novembre del 1980, una domenica, quando il terremoto distrusse Avellino e la circostante zona dell’Irpinia e della Basilicata. Partimmo il giorno dopo, con alcuni obiettori della Caritas, e venimmo mandati in quello che era stato un bel paesino di montagna, San Mango sul Calore, dove erano morte una settantina di persone. Organizzammo un centro di accoglienza, fasciando con del nylon i pilastri in cemento di una casa in costruzione. Divenne la sede della mensa, del dormitorio e vi celebrammo anche la Messa. Le letture erano quelle della prima domenica d’Avvento, come oggi.

Le parole della Bibbia erano diventate carne e sangue. Il Vangelo diceva: “Quando verrà il Figlio dell’Uomo, due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato; due donne macineranno alla mola, una verrà portata via e l’altra lasciata” (Mt 24,40s.). Così era stato a San Mango. Erano morti i giovani che, appena iniziata la scossa, erano fuggiti in strada. La strada era quella dei paesini, stretta in mezzo a due file di case, in salita, fino alla chiesa, in alto. La chiesa era crollata e il parroco era morto. E così morirono anche coloro che erano usciti dalle case, perché la casa di fronte gli crollò addosso. Si salvarono gli anziani, che non avevano fatto in tempo ad alzarsi.

Benedissi al cimitero le due lunghe file di bare. Le rivedo, così simili alle trincee scavate in Ucraina per accogliere le centinaia di cadaveri. Mi chiedo che senso abbia avuto allora e abbia adesso un simile spettacolo. Dovrebbe suscitare in noi la pietà, addolcire la violenza.

La morte rende tutti gli uomini uguali, qualunque sia l’uniforme che indossano, eppure Guccini ha ragione quando canta: “Io chiedo come può l’uomo / uccidere un suo fratello. / Eppure siamo a milioni / in polvere qui nel vento. / Ancora tuona il cannone/ ancora non è contento / di sangue la belva umana / e ancora ci porta il vento. / Io chiedo quando sarà / che l’uomo potrà imparare / a vivere senza ammazzare / e il vento si poserà”.

A San Mango, quella domenica, io vidi avverarsi anche un’altra parola, pure essa proclamata in quel giorno. Tratta dal profeta Isaia, essa diceva: “Verranno molti popoli e diranno: Venite, saliamo sul monte del Signore, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro tra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite; camminiamo nella luce del Signore” (Is 2,1-5). Era arrivato l’esercito (la Protezione civile sarà istituita nel 1992) e i soldatini di leva cedettero le loro tende a chi aveva perso la casa e dormirono sotto i camion.

Di fronte all’impossibilità di stabilire tempi e momenti, sia del ritorno del Figlio dell’Uomo che degli eventi di una storia fatta spesso di tragedie, sia, infine, della nostra stessa morte, l’esortazione evangelica è quella di “vegliare”. Il che vuol dire che troppo spesso dormiamo, che cioè cerchiamo di dimenticare, di fuggire da una realtà che ci fa sentire impotenti.

Non siamo impotenti. Certo, le nostre forze sembrano inadeguate di fronte all’enormità dei problemi. Vorrei però concludere con un ultimo fotogramma dei miei ricordi di allora. Un giorno io e un giovane missionario comboniano, padre Ezechiele Ramin, salimmo alle macerie della chiesa. Volevamo cercare il tabernacolo e recuperare le ostie consacrate: ma non era possibile, sotto quel grande cumulo di macerie. Lui mi disse che era bello pensare che Gesù fosse ancora lì, anche se nascosto: era come se ci dicesse che nei luoghi del dolore egli c’era sempre. Cinque anni dopo, Lele era in Brasile e fu ucciso, perché difendeva i diritti dei contadini. La Chiesa ha iniziato il processo per proclamarne la santità. Egli ha vegliato, e si è fatto trovare pronto nel momento della decisione.