Matteotti, un martire social-democratico

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Nel centenario della “Marcia su Roma”, oltre a diversi libri con oggetto quell’evento, alcuni studiosi, vedi il prezioso libro “Solo” di Riccardo Nencini, hanno voluto ricordare la figura dell’onorevole Giacomo Matteotti, colui che è unanimemente considerato il più nobile martire della furia fascista.

Quando si parla di Matteotti lo si indica generalmente come socialista, e la sua figura e il suo sacrificio appartengono indistintamente a tutta la sinistra. Molti non sanno e i pochi che ne sono a conoscenza ricordano o lo fanno distrattamente, che Matteotti quando fu contestato, rapito e ucciso era il segretario nazionale del Partito socialista unitario.

Il PSU era nato a Roma il 4 ottobre 1922, a seguito dell’espulsione dal PSI della frazione riformista di Turati, Prampolini e molte altre nobilissime figure di dirigenti socialisti. Matteotti dunque morì da socialdemocratico e non semplicemente da antifascista e di fede non genericamente socialista.

Vediamo dunque di ricostruire quei fatti, capire la lotta fratricida che si consumò al XIX congresso e le loro conseguenze per l’Italia.

La storia della sinistra italiana è stata un susseguirsi di scissioni, riunificazioni, nascite e morte di gruppi, associazioni e correnti, che ne hanno minato le potenzialità politiche e spesso favorito la vittoria degli avversari. Tutte le divisioni, come ha ben descritto Mauro Del Bue nel suo libro “Unità”, hanno coinciso con i momenti più critici e decisivi del Paese e sono sempre nate in rapporto a fattori esterni al partito socialista: il rapporto con gli anarchici, con i comunisti, prima russi e poi italiani, e con il fascismo.

Già la sua nascita, nel 1892, non poteva essere, infatti, più traumatica. Allora si consumò la divisione dagli anarchici, che provocò gravi ripercussioni nel proletariato italiano e in quello internazionale. Di tutte quelle feroci lotte intestine si è a lungo parlato e scritto. Ogni congresso socialista è stato analizzato fin nei suoi aspetti apparentemente secondari, così come sono state studiate le sue risoluzioni conclusive.

Se il congresso di Livorno del 1921, con l’uscita dei comunisti fedeli a Mosca, ha rappresentato il momento più alto della incapacità socialista di porre un argine al dilagare del fascismo e impedire la sua ascesa al potere, quello del 1922, svoltosi a Roma poche settimane prima della “Marcia su Roma”, sancì la cecità politica della maggioranza del PSI, più impegnato a misurare il grado di fedeltà a Mosca del suo gruppo dirigente, che non a organizzare in Parlamento e nel Paese l’opposizione all’ascesa di Mussolini.

Serrati, segretario del partito, che si era sempre battuto nei precedenti congressi nazionali perché i riformisti non fossero espulsi, ora che Turati, di fronte alla drammaticità del momento, aveva addirittura osato recarsi dal re per consultazioni a seguito delle dimissioni del governo Facta, cambiò improvvisamente opinione. In quella occasione Turati, di fronte al crollo dell’Italia liberale, in considerazione anche delle continue violenze fasciste perpetuate in tutto il Paese, nei confronti di cooperative, dei giornali d’opposizione, dei circoli socialisti e sindacali, volle manifestare la disponibilità del gruppo parlamentare socialista a esprimere parere favorevole rispetto a un possibile governo di tenuta democratica.

In considerazione di quanto accaduto e alle continue pressioni sovietiche perché depurasse il partito dalla presenza dei destri, Serrati si dimostrò incapace di resistere e decise di procedere all’espulsione dei riformisti.

Il tema posto dai riformisti era il seguente: alla luce della drammatica situazione politica e con il fascismo alle porte è più che mai necessario ricercare una qualche collaborazione governativa, o è preferibile e sufficiente continuare ad attendere una rivoluzione predicata a parole ma nella pratica irrealizzabile?

A Turati e compagni la scelta da compiere apparve chiara: o impediamo lo sfascio definitivo del Paese, utilizzando tutti i mezzi democratici a disposizione, compreso l’appoggio o addirittura l’ingresso in un governo borghese di “salvezza nazionale” o continuiamo in una opposizione al fascismo sorda e sterile. È forse più utile predicare a parole una rivoluzione che non avverrà mai, restando confinati e condannati a dividersi nel partito in una disputa tutta ideologica fra massimalisti, filo comunisti e riformisti?

Per Turati e compagni non c’era più tempo. Tutte le carte dovevano essere giocate, tutte le strade dovevano essere percorse per ripristinare la legalità.

Già nel mese di luglio Prampolini aveva cercato di chiarire le ragioni che avrebbero richiesto un cambio di strategia. Dinnanzi alle devastazioni provocate dalla violenza fascista, all’impotenza della borghesia liberale e a quella compiacente degli agrari, riassunse la situazione politica con queste parole: “I comunisti sono per la rivoluzione, i nazionalfascisti sono per la dittatura. Entrambi vedono la soluzione nella violenza e nella guerra interna. Ma per chi crede che questa guerra orribile e distruttrice nulla risolverebbe e sboccherebbe nella piena disfatta del proletariato socialista, non solo ma anche nel completo sfacelo economico del nostro Paese e quindi in una rovina per tutti, proletari e borghesi, non sarà mai troppo tardi tentar di evitare questo disastro, mediante l’alleanza di quanti vedono l’estrema urgenza di ricondurre le lotte politiche entro gli argini civili della democrazia la quale dice: a tutti i partiti il diritto di agire per il trionfo delle proprie idee, e nello stesso tempo il dovere di rispettare nella legge la sovranità popolare, cioè la volontà della maggioranza”.

La tattica intransigente massimalista, secondo Prampolini, aveva condotto i lavoratori in una tragica condizione che volle riassumere mirabilmente in poche, semplici ma lapidarie parole “Soli in Parlamento, soli nel Paese, divisi come proletariato e sotto-divisi come partito”.

L’ennesima scissione dunque si verificò in occasione del XIX Congresso nazionale del partito tenutosi a Roma dal 1° al 4 del mese d’ottobre 1922, presso il Teatro del Popolo. I 200 delegati furono chiamati a discutere un ordine del giorno che presentava solo un punto “Situazione interna del partito e sua attività politica nel Parlamento e nel Paese: appoggio all’indirizzo di governo e partecipazione al potere nell’attuale regime”.

Il filosofo fiorentino Adelchi Baratono tentò invano di presentare una mozione unitaria, ma venne messo in minoranza da quella massimalista di Serrati.

La sera di mercoledì 4 ottobre si procedette al voto. Su 73.665 iscritti e 61.225 votanti i massimalisti ottennero 32.106 voti, gli unitari, riformisti e Concentrazionisti 29.119, dunque solo 3.000 voti in meno.

Al congresso risuonò invano il grido di Treves: “Divisi siamo inetti per la rivoluzione e per la collaborazione”.
Giunti a quel punto gli espulsi si riunirono il mattino seguente nella sala dell’Università proletaria. L’intento era quello, come dissero Prampolini e lo stesso Turati, di continuare i lavori del congresso del PSI.
Per significare però che il nuovo partito nasceva per dare casa e accogliere tutte le tendenze socialiste, lo chiamarono PSU (Partito socialista unitario).

Al PSU aderirono i più bei nomi del socialismo italiano Prampolini, Turati, Treves, Baldini, Gonzales, Nofri, Mazzoni, Baldesi, Zanardi, Canepa, Argentina Altobelli, Modigliani, Vacirca, Matteotti, Bentini, D’Aragona, Storchi, Saragat, Carlo Rosselli. In seguito diede la sua adesione anche Sandro Pertini.

Segretario fu eletto Giacomo Matteotti, che adottò La Giustizia quotidiana, appena trasferita da Reggio Emilia a Milano, come organo ufficiale del Partito. Direttore del giornale fu nominato Treves. Cinquanta deputati socialisti aderirono al partito. La CGdl proclamò la sua completa autonomia rispetto ai due partiti socialisti e rivendicò libertà d’azione.

Matteotti nella sua nuova veste di segretario viaggiò in lungo e in largo per la penisola, si recò ovunque i compagni lo richiedessero, cercò di rafforzare la struttura organizzativa del nuovo partito, in considerazione dell’età avanzata di molti dirigenti nazionali.

Matteotti non si dimostrò meno attivo e intransigente verso il fascismo in Parlamento, tanto da rappresentare l’avversario più contestato, deriso e minacciato dell’opposizione. L’epilogo come noto avverrà nel mese di giugno 1924.
Alle elezioni politiche del 6 aprile 1924, nonostante il sistema elettorale truffaldino voluto e imposto dai fascisti, i socialisti tornarono alla Camera in 47: 25 unitari, 22 massimalisti, oltre a 18 comunisti. Il PSU, grazie soprattutto al lavoro intensissimo del suo segretario risultò dunque il partito d’opposizione con più parlamentari.

I socialisti unitari e Matteotti in particolare si dimostrarono da subito molto impegnati nell’opporsi al consolidarsi del fascismo e per questo furono anche i più perseguitati. Furono tanto intransigenti da lasciare sul campo di battaglia il loro segretario nazionale. Il loro scopo, oltre ad abbattere il fascismo fu sempre quello di riguadagnare la libertà e la democrazia parlamentare.