La rivoluzione bolscevica vista da Reggio

leni.jpg

La Giustizia del 1° aprile 1917 inizia a interessarsi della rivoluzione democratica russa, scoppiata a Pietrogrado il 3 marzo, e della formazione del governo provvisorio con a capo Kerenski. Lo fa indirizzando, per bocca di Zibordi, il proprio plauso e l’augurio che, con l’abolizione dei privilegi di classe, possa estendersi “a più ardite mete di giustizia e di civiltà”.

Siamo in piena guerra mondiale e ogni paese coinvolto vive le sue contraddizioni interne. Il peggio per l’Italia arriverà a ottobre con la sconfitta di Caporetto, che però segnerà la svolta militare nel conflitto con la vittoria finale dell’Italia e delle forze dell’Intesa. La Russia appare priva di una guida autorevole e stremata sia dal punto di vista militare che economico, matura la volontà di uscire quanto prima possibile dal conflitto. I più convinti sono i bolscevichi, che seppur in minoranza nel quadro rivoluzionario che si è venuto a determinare, si stanno organizzando per la presa del potere.

L’ingresso nel governo Kerenski dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi viene salutato con simpatia dai socialisti reggiani, da sempre contrari alla guerra, che sottolineano il contrasto politico esistente con i bolscevichi. Con la rivoluzione del 7 novembre (25 ottobre secondo il calendario ortodosso), che porta al potere i bolscevichi di Lenin e Trotzki, l’atteggiamento dei socialisti reggiani si fa più complesso e articolato. Approvano, infatti, l’armistizio di Brest-Litowski e quindi l’uscita dell’URSS dal primo conflitto mondiale, ma non la dittatura del proletariato e la ripetibilità del modello in Italia.

Inevitabilmente la discussione si riproduce anche dentro le fila del partito socialista, facendo emergere posizioni nuove e in contrasto tra loro. Nonostante questo, nessuno, nemmeno l’ala rivoluzionaria, intende mettere in discussione il gruppo dirigente locale. La frattura tra le tendenze riformiste e quelle rivoluzionarie si avrà solo più tardi con le scissioni del gennaio 1921, che darà vita al PCdI e dell’ottobre 1922, con la nascita del PSU.

Il pensiero di Prampolini è chiaro: “la dittatura è esercitata da un gruppo di bolscevichi, un partito di intellettuali, scarsi di numero ma straordinariamente ricchi di ingegno, di cultura, di volontà e di fede, ma nessuno può dire che questa loro dittatura potrà giovare ad affrettare il movimento proletario internazionale”.

Zibordi aggiunge: “Le masse preferiscono sintetizzare tutta una situazione in un uomo, personificarla in un essere vivo, tangibile, fatto come noi, che ha un nome: Lenin. Tale fu l’origine di tutte le religioni, e così oggi ancora, e chissà per quanti secoli; la gente crea dei simboli a cui attribuisce poteri miracolosi… Badate però che egli sarà un castigamatti per la borghesia, ma anche per voi, se mai per caso vi figuraste che egli fosse uno di coloro che lasciano che la folla faccia tutto quello che vuole…sarete voi a fare i conti con lui, e se non sarete disciplinati, laboriosi, obbedienti alle leggi comuniste, vedrete che è un uomo che non scherza”.

Pur contrastando, in nome dell’autodeterminazione dei popoli, l’aggressione delle potenze occidentali, la dirigenza socialista continua a sottolineare le grandi divergenze esistenti con il regime bolscevico.
Zibordi, facendo appello alla sua nota capacità di sintesi, ripete nel corso di un congresso collegiale di Montecchio Emilia del giugno 1919: “La critica nostra alla Russia è relativa ed è assoluta: relativa alla possibilità di ripeterla in Italia, è assoluta, in quanto riguarda la dittatura e la violenza che là si usò, che si dovette usare […]. Un regime fondato con la violenza è ingiusto; cioè perché violenta delle coscienze ma violenta soprattutto delle realtà”.

La Giustizia settimanale si fa interprete delle inquietudini popolari per un imminente intervento militare contro la Russia e riafferma la propria convinzione circa il diritto dei popoli a cercare la propria strada di sviluppo. Gli stessi concetti sono riproposti nella grande manifestazione del 20/21 luglio 1919 d’adesione allo sciopero internazionale indetto dai socialisti di Francia, Gran Bretagna e Italia. La Giustizia quotidiana e quella settimanale si impegnano molto per la riuscita dello sciopero, pubblicando anche documenti e appelli di carattere locale e internazionale. Il 23 luglio il giornale riporta un ricco resoconto della manifestazione, e dei vari discorsi pronunciati, fra cui quello, tenuto in città, di Arturo Bellelli.

Altre simili iniziative si svolgeranno il 7 marzo e il 14 settembre 1920 anche i molti comuni della provincia.

La convivenza nello stesso partito tra riformisti e comunisti comincia inevitabilmente ad essere difficile, se non impossibile. Il gruppo torinese di Gramsci, e gli aderenti a L’Ordine Nuovo, infatti, sull’onda del “biennio rosso” e dell’occupazione delle fabbriche, puntano alla costituzione dei soviet in Italia, come evoluzione dei consigli di fabbrica e lanciano la parola d’ordine “Fare come in Russia”. I riformisti, invece, predicano l’elezione di consigli di fabbrica aperti a tutti, con caratteristiche prevalentemente economicistiche.
Mentre gli esponenti de L’Ordine nuovo considerano quelli prampoliniani “guardie bianche di Reggio Emilia”, La Giustizia settimanale del 22 agosto definisce il metodo bolscevico “utopistico nella pratica e moralmente ripugnante”. Altro bersaglio dei riformisti sono gli ordini impartiti da Mosca, i famosi 21 punti, che per appartenere alla III Internazionale impongono l’espulsione dal partito dei riformisti e dei centristi.

Anche i massimalisti di Serrati, pur accettando con riserva il programma dell’Internazionale, rifiutano l’espulsione dei destri, ritenendo necessaria l’unità del partito.
Le assemblee reggiane, preparatorie del XVII Congresso di Livorno (15/21 gennaio 1921), danno comunque il seguente risultato: Concentrazione (riformisti) 5.218 voti, massimalisti 3.625, comunista 686.
Ma nell’estate dell’anno successivo si ha una svolta. La maggioranza nazionale massimalista cambia opinione sulle direttive della III Internazionale, circa la presenza dei riformisti nel partito.

Prampolini il 17 settembre 1922 scrive su La Giustizia settimanale: “Basta con l’equivoco! Nessuno deve essere tratto in inganno. I compagni e le organizzazioni nostre, se intendono passare dal socialismo al bolscevismo, devono farlo di loro spontanea volontà, sapendo bene quel che fanno, e non già esservi trascinate inconsciamente e loro malgrado mediante la trappola del massimalismo”.

Nonostante tutto questo, il XIX Congresso nazionale di Roma del 1-3 ottobre delibera l’espulsione dei riformisti, che danno vita al Partito socialista unitario, con segretario Giacomo Matteotti.
Gli ultimi anni de La Giustizia settimanale, cesserà le pubblicazioni il 30 ottobre 1925, sono molto difficili a causa delle continue censure, dei sequestri nelle edicole e negli uffici postali. Anche in quel periodo Prampolini e compagni continuano a scrivere articoli molto critici verso l’esperienza dei soviet e la dittatura del proletariato.
Il fascismo, però, è a questo punto già uscito indenne dalle reazioni al delitto Matteotti e sta preparando le leggi eccezionali.

Prampolini, il 24 giugno, consapevole del triste momento, aveva già scritto a Simonini una lettera di questo tenore: “Nel mio pensiero il metodo legalitario ebbe sempre per presupposto l’esistenza della legalità, vale a dire la possibilità di diffondere e fare trionfare un’idea mediante la propaganda, l’associazione e il suffragio universale. Dove questa possibilità manchi, le vie della legalità (della sovranità popolare) sono chiuse e le aspirazioni alle quali è negata le aspirazioni alle quali è negata la libertà di vivere ed espandersi vanno fatalmente a sboccare nelle vie dell’azione rivoltosa”.

La lettera inviata a Simonini sarà pubblicata dopo la liberazione, il 13 maggio 1945, dalla risorta Giustizia domenicale.
Quelle amare considerazioni erano nate dalla consapevolezza che ormai era inutile cercare di fermare il fascismo con la sola forza dei valori di democrazia, libertà e di eguaglianza. Ciò, a suo parere, valeva per tutti i regimi totalitari e dispotici, quindi anche per quello instaurato in Russia dai bolscevichi.
Tali riflessioni saranno poi riprese e fatte proprie da Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli, dal Partito d’Azione e, nella lotta partigiana, dalle formazioni delle Fiamme Verdi.