La grande bellezza

don Giuseppe Dossetti CeIS mic

Nel mezzo della pianura settentrionale della terra di Israele sorge un monte, il Tabor. Gesù vi sale, accompagnato dai tre discepoli più cari, Pietro, Giacomo e Giovanni, che divengono i testimoni della sua Trasfigurazione. Una luce sfolgorante lo avvolge: essa è di tale bellezza, che Pietro non vorrebbe più scendere.

Con delicatezza, l’evangelista Luca suggerisce che tale splendore ha un prezzo. Gesù sale sul Tabor proprio all’inizio dell’ultimo viaggio, che lo porterà a Gerusalemme, dove lo aspettano il disonore e la morte. Si è recato lassù “per pregare”. Vorremmo conoscere il contenuto di questa preghiera e in realtà lo possiamo: essa è sempre la stessa, ripetuta costantemente dopo il Battesimo nel Giordano ad opera di Giovanni. Essa ci viene consegnata in un momento supremo, nell’Orto degli Ulivi: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice; tuttavia, non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42). I testimoni sono gli stessi tre discepoli, che hanno visto la gloria sul monte e ora vedono Gesù coperto dal sudore di sangue, come lo aveva visto il profeta Isaia: “Uomo dei dolori, come uno davanti al quale ci si copre la faccia”, perché tanta sofferenza e angoscia sono insopportabili per chi ne è spettatore.

Dobbiamo immaginare che sul Tabor Gesù abbia provato la stessa angoscia del Getsemani. Sopraggiungono però due consolatori, i massimi rappresentanti della storia di Dio con Israele, la Legge e i Profeti, Mosè ed Elia. Essi gli parlano del suo “esodo”, che si compirà nella Città Santa. Questa parola indica anzitutto la morte; nello stesso tempo, però, ci ricorda il passaggio del Mar Rosso, la liberazione del popolo di Dio dalla schiavitù dell’Egitto. Mosè ed Elia dicono a Gesù che il suo sacrificio sarà per la salvezza del mondo. Infatti, la liberazione dall’Egitto spirituale del male porta a sperimentare la luce amica che vuole avvolgere ogni uomo e che indica una comunione per sempre, la partecipazione alla vita divina.

Quanti di noi sono disponibili a salire quel monte o a seguire Gesù nel suo esodo? L’Egitto spirituale ha armi ben più potenti dei carri e dei cavalli del Faraone.

In sostanza, ci viene detto che il Vangelo è una favola bella: bella, sì, ma favola. A cosa può servire un crocifisso? Ne abbiamo già tanti, schiantati dalle guerre, affogati nel mare, violati nella loro dignità, uomini e donne “scartati”, come dice il Papa: davvero, avremmo bisogno non di poesia, ma di un potere che facesse giustizia, guarisse le ferite di un’umanità così dolente.

C’è però una contestazione ancora più radicale. A Gesù si oppone non l’inutilità di un visionario, ma un’alternativa sprezzante, grazie alla quale l’Egitto spirituale rivela il suo volto, che è volto di morte, quasi che dicesse: smettete di illudere gli uomini con le favole sul progresso, sulle vittorie della scienza, perché ciò che vince è il male; sappiamo che il termine ultimo è la morte, ma, finchè possiamo, cerchiamo di stare dalla parte giusta. I soldi non li potremo portare con noi, quando moriremo, ma, almeno, accumuliamoli e godiamoli, senza gli scrupoli dei moralisti. La guerra genera mostri atroci, ma è un grande e affascinante gioco, nel quale consapevolmente ci inganniamo.

Una singolare coincidenza riassume simbolicamente questi discorsi. La liturgia della Chiesa colloca la memoria della Trasfigurazione sul Tabor il sei di agosto: nello stesso giorno dell’anno 1945 il mondo contemplò sgomento il bagliore mortale della prima bomba atomica, lanciata su Hiroshima.

Il Faraone spirituale sta ottenendo un grande successo, perché ci sta togliendo il desiderio della vita. La grande domanda, “c’è una vita oltre la morte?” sembra non interessare più. Ci accontentiamo o rinunciamo. Per questo, è importante rivolgere lo sguardo alla bellezza del Tabor. Essa è la bellezza dell’Uomo dei dolori.

La festa di oggi vuole aiutarci a scoprire la bellezza di un Dio crocifisso: è la bellezza dell’amore. La croce toglie ogni banalità alla frase: “Dio è amore”; infatti, “in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”, come dice uno dei testimoni del Tabor, Giovanni (1Gv 4,10).