Benito, il comunista ucciso dai comunisti (5)

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L’immagine che, forse più di tutte, iconizza la supremazia sportiva del blocco comunista negli anni della Guerra fredda è la foto scattata alla cerimonia della finale dei pesi massimi di pugilato ai Giochi della XXII Olimpiade, nel 1980, quattro anni e un’Olimpiade dopo l’assassinio del camionista rubierese Benito Corghi al confine tra Germania dell’Est e Germania dell’Ovest. Intanto siamo a Mosca, nella grande madre Russia, allora ancora Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, l’URSS (o USSR per gli anglofoni o ancora CCCP se si preferisce il cirillico): finché rimase unita, il più esteso Paese del mondo, con oltre 22 milioni di chilometri quadrati di superficie, un sesto delle terre emerse, 75 volte l’Italia.

Al centro della foto (GettyImages) sul gradino più alto del podio, c’è un pugile con i muscoli che sembrano scolpiti nell’ebano: l’arbitro e altri due atleti gli tengono le braccia alzate, perché quel giorno ha vinto la terza medaglia d’oro di fila in altrettante Olimpiadi. Lui è il formidabile campione cubano Teofilo Stevenson, che ha appena sconfitto in finale ai punti (4 a 1) il sovietico Pyotr Zaev, primo da sinistra in completo rosso d’ordinanza. Il terzo pugile che appare, con la caratteristica tuta azzurra della DDR, è Jurgen Fanghanel, medaglia di bronzo insieme all’ungherese Lévai. Cuba, Urss e Germania dell’Est: complice anche il boicottaggio degli Stati Uniti (e di altre 64 nazioni) a seguito dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, questo podio olimpico è l’emblema del comunismo a tutte le latitudini.

Lo stesso medagliere di Mosca 1980 vede l’URSS trionfare con ben 80 ori, davanti a Germania Est (47) e Cuba (8): 135 medaglie d’oro per quelle sole tre Nazioni, contro le 69 – in pratica la metà – ottenute dal resto del mondo.
Uno schiacciante predominio che sarebbe riduttivo, ancorché ingiusto, collegare solo ed esclusivamente alle spregiudicate pratiche di doping attuate in molti Paesi dell’Est, a partire dalla DDR. Ci saranno state, certamente, delle medaglie “sintetiche”, ma in quegli anni non sono mancati gli ori conquistati in virtù di classe sopraffina, di sacrificio e abnegazione negli allenamenti, anche – perché no – di quella spinta in più, di quella motivazione maggiore che ti deriva dal voler gareggiare e voler primeggiare non solo per se stessi, ma anche per un intero popolo e per un ideale.

E’ la storia di quel colosso d’ebano che appare al centro della foto con la medaglia d’oro che gli brilla sul petto. Lui, è il formidabile campione cubano Teofilo Stevenson, che sul ring di Mosca ha appena vinto la sua terza medaglia d’oro consecutiva dopo Monaco 72 e Montreal 76, secondo pugile della storia a riuscire in questa impresa.
Proprio nell’estate del suo successo alle Olimpiadi canadesi Donald “Don” King – che due anni prima ha organizzato in Zaire il leggendario rumble in the jungle tra i pesi massimi George Foreman e Muhammad Ali, nato Cassius Marcellus Clay Jr., mirabilmente raccontato dal sommo Federico Buffa in A night in Kinshasa – è pronto a ricoprirlo d’oro pur di sbatterlo su un ring contro the greatest. Quanto, di preciso, non si sa: c’è chi dice 1, chi 2, chi addirittura 5 milioni di dollari (che in realtà sembra l’ammontare della seconda proposta, quella fattagli nel 1978 durante un campionato dilettantistico al Madison Square Garden).

Ma se anche si fosse trattato di “solo” 1 milione di dollari, in quel 1976 delle Olimpiadi di Montreal la somma equivaleva all’incirca a 800 milioni di lire, che oggi corrisponderebbero a poco meno di 4 milioni di euro e che allora – quando la busta paga media di un operaio, e forse anche di Benito Corghi, era di 160.000 lire – significavano cinquemila mensilità, pari a 416 anni di stipendio…
Quale che fosse la proposta indecente fattagli per sfidare Muhammad Ali, tutti i sacri testi dello sport concordano sulla risposta di Stevenson a don King, parole a loro volta entrate nella leggenda. Teofilo, con quei suoi occhi neri e fieri che sul ring facevano abbassare lo sguardo a ogni avversario, fissa il promoter dall’improbabile acconciatura e gli dice: “No cambiaría un pedazo de la tierra de Cuba por todos los millones que podrían darme en el mundo: prefiero el cariño de ocho millones de cubanos” (“Non cambierei un pezzo di terra di Cuba per tutti i milioni del mondo, preferisco l’affetto di otto milioni di cubani”).

Nel giugno del 2012, quando un infarto stronca a soli 60 anni Teofilo Stevenson, sarà proprio uno degli otto milioni di cubani a testimoniare l’affetto di quel popolo. E non uno qualsiasi, ma il loro lider maximo: “Ningún otro boxeador amateur brilló tanto en la historia de ese deporte. Ningún dinero del mundo habría sobornado a Stevenson”, verga di suo pugno Fidel Alejandro Castro Ruz: “Nessun altro pugile dilettante ha brillato così tanto nella storia di questo sport. Nessun denaro al mondo avrebbe corrotto Stevenson”.

La sua seconda medaglia d’oro olimpica, Teofilo Stevenson l’aveva vinta a Montreal – agli ultimi Giochi Olimpici visti da Benito Corghi, giusto pochi giorni prima di essere ucciso dai vopos – stendendo a 16 secondi dallo scadere del terzo e ultimo round con un terribile gancio destro il rumeno Mircea Şimon, che due anni dopo fuggirà negli Stati Uniti dandosi al professionismo. Quelli canadesi sono, per la DDR, le Olimpiadi della svolta: le prime nelle quali la delegazione del martello e del compasso racchiusi tra due gambi di segale inizia a beneficiare degli aiuti del famigerato Staatsplanthema 14.25. Tanto che, alla fine, i 267 atleti della DDR si assicureranno ben 90 medaglie – 25 d’argento, altrettante di bronzo e addirittura 40 d’oro, il doppio di quelle dell’edizione precedente – raggiungendo il secondo posto nel medagliere complessivo, davanti agli odiati capitalisti a stelle e strisce e dietro alla sola grande madre Russia.

Straordinarie furono, soprattutto, le prestazioni ottenute dalle atlete della Germania Est, capaci di aggiudicarsi 9 medaglie d’oro su 14 nell’atletica leggera e addirittura 11 su 13 nel nuoto, grazie anche alla nuotatrice Kornelia Ender, prima donna a vincere quattro medaglie d’oro in una singola edizione dei Giochi.

Tra quelle 40 medaglie d’oro di Montreal 76 c’è anche quella del torneo di calcio. La finale si gioca alle 21.30 di sabato 31 luglio 1976, proprio alla vigilia della cerimonia di chiusura dei Giochi. Lo spirito olimpico privilegia i Paesi dell’Est, che non conoscendo il professionismo possono partecipare con la prima squadra. Di fronte, la DDR si trova così la Polonia, forte di campioni del calibro di Tomaszewski, Szymanowski, Żmuda, Lato, Kasperczak, Deyna e Szarmach. Sono nomi a noi familiari, perché appena due anni prima – ai Mondiali di Monaco 74 – hanno eliminato l’Italia di Valcareggi al primo turno. Contro la Polonia, già qualificata, ci bastava un pari per accedere alla seconda fase, ma finisce 1-2 con splendide reti di Szarmach e Deyna e inutile gol nel finale di Capello. “Pigliamo su e portiamo a casa – scriverà Gianni Brera con la sua prosa inimitabile – Mentre mi appresto a trasmettere queste note, cinque merli sicuramente emblematici ed allusivi beccottano i vermi sgusciati dalle zolle smosse durante l’incontro Italia-Polonia. Davanti allo stadio, tumultuano alcune centinaia di nostri emigrati che la sconfitta ha indignato assai più di qualsiasi altra calamità nazionale. Il mio cuore, per contro, è gerbido. Non ho neppure la forza di indignarmi. Mi sento improvvisamente vecchio e annoiato”.

Davanti ai 71.617 spettatori che gremiscono gli spalti dello stadio olimpico di Montreal, la DDR parte dunque sfavorita contro quella portentosa Polonia, che a Monaco era arrivata fino al terzo posto battendo nella finalina il Brasile di Dirceu e Rivelino. Ma, dopo nemmeno un quarto d’ora, i tedeschi sono già avanti di due gol. Sotto una pioggia battente segnano Schade al 7’ e Hoffmann al 14’, che conclude con un gran tiro al volo incrociando dal vertice sinistro dell’area sul palo opposto un’azione di straordinaria bellezza. A inizio ripresa un’inzuccata di Lato su calcio d’angolo illude i polacchi, che capitolano definitivamente nel finale subendo la terza rete in contropiede ad opera di Hafner.

E’ medaglia d’oro, l’ennesima! Per i tifosi della DDR e del comunismo (e chissà se in quel caldo sabato di fine luglio a gioire, davanti alla tv, una settimana prima di morire al confine tra le due Germanie, c’era anche Benito Corghi…) è un trionfo che va ben oltre il calcio. E’ un’altra affermazione della supremazia del socialismo reale, che per altro segue di appena 40 giorni il sorprendente trionfo della Cecoslovacchia (quella pallonara guidata da Václav Ježek, mentre quella politica un anno prima aveva visto Gustáv Husák – nella foto con Brežnev – succedere alla presidenza al generale Ludvík Svoboda) agli Europei. Un successo conquistato proprio contro la fortissima Germania Ovest di Beckenbauer, Hoeness e Müller – campione d’Europa e del Mondo in carica – al termine di una finale decisa per la prima volta dai calci di rigore, sontuosamente suggellati dal primo “cucchiaio” passato alla storia del calcio, quello con cui Panenka beffa il gatto di Anzing, al secolo Sepp Maier. Si giocò a Belgrado, dunque in Yugoslavia, e di fronte c’erano per l’appunto Cecoslovacchia e Germania Ovest: c’erano in tutti i sensi, perché oggi nessuna di quelle tre Nazioni esiste più…

Né quella medaglia d’oro della DDR a Montréal, né quel titolo europeo sorprendentemente conquistato dalla Cecoslovacchia sempre nel 1976 sono tuttavia in alcun modo paragonabili alla leggendaria sfida tra le due Germanie che era andata in scena due anni prima, ai Mondiali di Monaco 74.

Ma questa è un’altra storia…

(5 – continua)

La prima puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti

La seconda puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti

La terza puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti

La quarta puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti