Il comunista ucciso dai comunisti (4)

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Andreas Krieger nel 1980 – quando a 14 anni prese un peso in mano ed iniziò a lanciarlo per lo Sports Club Dynamo Berlin, società sportiva controllata direttamente dalla Stasi – si chiamava Heidi. Andreas Krieger – che oggi è un omone che si guadagna da vivere vendendo vecchie divise dell’esercito americano in un negozio di Magdeburgo – nel 1986 a Stoccarda quel peso lo scagliò a 21,10 metri, una impressionante distanza che valse primato personale e titolo europeo femminile. Andreas Krieger – che nelle foto del suo album di matrimonio, nel 2002, sfoggia un bel paio di baffi accanto alla moglie Ute Krause, ex nuotatrice della DDR – negli anni Ottanta era un gran pezzo di ragazza, un’amazzone di 85 chili dalle spalle larghe e dal viso rotondo, ma con la voce profonda e un leggero strato di barba, che un brutto giorno smise di indossare la gonna perché, su un treno sul quale viaggiava insieme alla madre, un passeggero le diede del travestito.

La campionessa europea femminile del lancio del peso Heidi Krieger, dal 1997 è diventato uomo e si chiama Andreas. Nel 1986, quando appena ventenne conquistò il titolo continentale, il suo allenatore le aveva fatto assumere 2.590 milligrami di Oral-Turinabol, una dose di circa mille milligrammi superiore a quella somministrata all’atleta canadese Ben Johnson. Cinque anni dopo, a soli 25 anni, la sua carriera era già finita perché il suo corpo da donnona, sfruttato all’inverosimile, non reggeva più: vertebre, giunture, tendini erano ormai irrimediabilmente compromessi e non la rendevano più competitiva. Ma la sua confusione sessuale era ancora più profonda. “Cominciavo a innamorarmi delle donne e a sentirmi prigioniera nel mio corpo, ma ancora non sapevo che fare”, ricorda. A metà degli Novanta Heidi decide di rivolgersi a un medico: “Il dottore mi chiese se avevo mai preso steroidi. Non ne ero sicura, ma quando mi decisi a indagare venne fuori che me ne avevano dati una quantità enorme”. “Heidi era stata uccisa”, ha dichiarato in millanta interviste, ma nel 1997, con un’operazione, ha cambiato sesso ed è ‘nato’ Andreas Krieger. Ogni tre settimane il suo medico gli deve somministrare dosi massicce di testosterone, “perché se salto una dose me ne accorgo subito: la barba smette di crescere e comincio a comportarmi in modo strano, divento irritabile, non riesco a concentrarmi e spesso scoppio in lacrime”. Nel 2002 ha sposato Ute Krause, un’ex nuotatrice che come lui ha subìto per anni l’effetto degli steroidi, soffrendo per vent’anni di anoressia. Oggi Andreas conduce una vita tutto sommato normale, anche se la più innocua attività fisica gli provoca dolori insopportabili a causa delle vertebre deformate, ed ha un solo rimpianto: “Non aver potuto scegliere liberamente la mia identità sessuale, perché sono stati i farmaci a decidere del mio destino”.

Anche Ines Schmidt è stata un’atleta di punta della Ddr, ma a lei è andata decisamente meglio.

ADN-ZB Thieme 9-8-81 Bez. Gera-32. DDR-Meisterschaft der Leichtathletik: Das Frauenquartett mit Ines Gaipel, Bärbel Wöckel, Ingrid Auerswald und Marlies Göhr (vlnr) vom SC Motor Jena siegte im 4x-100-Meter-Staffel-Lauf der Frauen in 42,35 Sekunden.

Ha cambiato solo il cognome, da Schmidt a Geipel, ma è rimasta Ines e, dunque, donna. Nata a Dresda nel 1960, figlia di un agente della Stasi, inizia a fare atletica nel 1977, l’anno dopo l’uccisione al confine tra le due Germanie di Benito Corghi. “Ho iniziato a correre per sopravvivere, per dimenticare e per scappare dal dolore”, racconta. Correrà per la formidabile SC Motor Jena dal 1977 fino al 1985, quando la sua carriera viene stroncata da una strana appendicectomia con cui le vengono inferte gravi lesioni ai muscoli dell’addome: “Sono stata eliminata strategicamente dalla Stasi perché, durante un campo preparatorio per i Giochi Olimpici, mi ero innamorata di un atleta messicano e volevo fuggire all’Ovest”, spiega. Pochi mesi prima, il 2 giugno 1984, insieme a Bärbel Wöckel, Ingrid Auerswald e Marlies Göhr, Ines Schmidt con lo squadrone della SC Motor Jena aveva stabilito a Erfurt uno strabiliante 42’20” nella 4×100 femminile, a lungo record del mondo per club. Tra i documenti della Stasi emersi al Berliner Dopigprozess, c’è anche la fredda annotazione degli steroidi assunti attraverso l’Oral-Turinabol dalle quattro atlete nel corso del 1984: Wöckel 1.670 milligrammi, Göhr 1.405, Auerswald 1.375, Schmidt 1.291. Del resto quel tempo di 42’20” alle Olimpiadi di Pechino 2008, dunque un quarto di secolo più tardi, complice anche la squalifica delle statunitensi in batteria e delle superfavorite giamaicane in finale, avrebbe assicurato la medaglia d’oro, andata alla Russia con 42’31” (un oro poi revocato nel 2016, a causa della positività accertata a sostanze proibite di Julija Čermošanskaja, e assegnato alla staffetta del Belgio, giunta seconda col primato nazionale di 42’54”, a conferma di come il doping, a Est come a Ovest, non sia di certo crollato insieme al Muro…).

Riuscita a fuggire in Ungheria nel 1989, oggi Ines Geipel e non più Schmidt è un’affermata scrittrice e docente presso la Scuola di Arte Drammatica Ernst Busch di Berlino, ma soprattutto è la fondatrice dell’Associazione per le vittime del doping, di cui è stata presidente dal 2013 al 2018. Con la sua associazione, Geipel ha fornito assistenza a circa 2.000 ex atleti – “anche se il timore e la vergogna scoraggiano molte vittime dal ricercare aiuto, specialmente quando si tratta di atleti che non si sono emancipati dal contesto in cui vivevano allora, caratterizzato ancora oggi da un’omertà diffusa” – ed è riuscita a ottenere due leggi che riconoscono un’indennità alle vittime del doping di Stato della Ddr.

Se dopare le donne era preferibile, perché su di loro l’effetto virilizzante degli ormoni maschili risultava nettamente più forte, sugli uomini la pratica era meno diffusa, ma drammaticamente più pesante. Il sollevatore di pesi Gerd Bonk negli anni Settanta, mentre Benito Corghi trasportava carne col camion tra la Germania dell’Est e l’Italia, stabilì un paio di record mondiali, vinse diversi titoli europei e alle Olimpiadi di Montreal 76 conquistò una medaglia d’argento nei pesi supermassimi, alle spalle del colosso sovietico Vasilij Alekseev. Gerd Bonk veniva spacciato dal regime della Germania dell’Est come l’uomo più forte del mondo. Almeno all’esterno: perché in patria – tra i suoi allenatori, i membri dello staff delle nazionali e i medici – Bonk era chiamato in un altro modo.

“Lo definivano il campione del mondo di doping”, ha raccontato un ex giornalista radiofonico tedesco, Herbert Fischer-Solms, al collega Brian Blickenstaff, autore di un lungo e dettagliato articolo su Bonk per Vice Sports. Complice anche la spregiudicatezza del medico del team nazionale di sollevamento pesi – un vero fautore del doping estremo, che non si limitava a somministrare ai suoi atleti dosi di Oral-Turinabol per via orale più alte rispetto a quelle raccomandata dallo Stato, ma ricercava, sperimentava ed iniettava anche altre sostanze – Bonk nell’arco di 12 mesi, tra il 1978 e il 1979, fu costretto ad assumere 12.775 milligrammi di steroidi, 11.550 dei quali erano di Oral-Turinabol. Si tratta della quantità più alta mai documentata di steroidi anabolizzanti assunti in un anno da un essere umano: “Gli allevatori di vitelli della Germania Ovest utilizzavano una dose simile per mettere all’ingrasso un’intera mandria”, ha scritto Der Spiegel.

Dosi così massicce hanno inevitabilmente devastato il fisico di Bonk, al quale per altro i medici avevano diagnosticato nel 1979 un grave disturbo del diabete, tenendoglielo inizialmente nascosto per continuare a doparlo e farlo gareggiare. Costretto a ritirarsi appena trentenne, i suoi reni hanno cominciato a collassare costringendolo alla dialisi, ha subìto l’amputazione delle dita e nel 1989, a soli 37 anni, è stato dichiarato disabile. Ha trascorso gli ultimi 25 anni della sua vita su una sedia a rotelle, ascoltando i dischi di Beatles, Stones e Abba che aveva acquistato durante le gare in Occidente, ricevendo nel 2002 un indennizzo una tantum di 10.438 euro. Bonk è morto il 20 ottobre 2014 in Turingia, all’età di 63 anni, lasciando una moglie e un figlio, mentre aspettava invano una pensione statale per le vittime del doping. “Bruciato dalla DDR, dimenticato dalla Germania unita”, ha detto in una delle ultime interviste.

Quelli di Heidi-Andreas, Ines e Gerard sono solo alcuni dei volti dell’altra faccia di tutte quelle medaglie sintetiche, conquistate ad ogni costo perché, negli anni della Guerra fredda, un podio olimpico andava ben oltre il risultato sportivo. L’oro certificava le virtù di un sistema politico, la patina aurea serviva a mascherare le pecche di regimi totalitari, spacciando per nazioni ricche e prospere, come i suoi atleti fortissimi testimoniavano, stati di polizia con un’economia traballante e nessun accesso a beni anche solo vagamente di lusso.

Dunque, laddove il genio, la classe, la potenza, il campione ‘vero’ non arrivavano, doveva arrivare il doping. C’è un’immagine che, forse più di tutte, iconizza la supremazia sportiva del blocco comunista di quegli anni e, al tempo stesso, testimonia come quel primato non fosse solo frutto di pratiche illecite. E’ la foto scattata alla cerimonia della finale dei pesi massimi di pugilato ai Giochi della XXII Olimpiade, nel 1980 a Mosca.

Ma questa è un’altra storia…

(4, continua)

La prima puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti

La seconda puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti

La terza puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti