di Mauro Del Bue _ Dubito che all’insorgere della rivoluzione il popolo agitasse il tricolore, più probabile che si mostrasse con le coccarde blu e rosse, e poi certo la ghigliottina non era il simbolo né l’ispirazione dei rivoluzionari. Anzi gli ideali proclamati, come é noto, erano quelli riassunti nella triade “eguaglianza, fratellanza e libertà. La lettura registica si affresca dei colori più accesi e alla rivoluzione, che appare in sottofondo e sempre dominata dal terrore, si accoppia il sapore del sangue, che nell’opera di Giordano é preminente solo nella seconda parte e non già alla fine del primo atto, quando esplode.
Ma l’Andrea Chenier é soprattutto musica, verista, romantica, profumata dei tenui ripiegamenti melodici ora cantati ora impostati anche solo da un arco. Ed é musica che esplode nel toni più ardenti dell’amore e della morte, sempre tra loro indissolubilmente collegati. Dell’amore che diventa morte. E questo Andrea Chenier, messo in scena come coproduzione dei teatri emiliani, ha suscitato un successo caloroso. Anzi, per la prima volta dopo molti anni, il teatro di Reggio Emilia ha conosciuto le ovazioni di un tempo col pubblico della lirica a chiedere e ottenere il bis alla romanza “La mamma é morta”, cantata da Maddalena di Coigny, la superba Saoia Hernandez, giá brillante protagonista, nella stagione passata, della Gioconda di Ponchielli. La Hernandez ha interpretato il difficile ruolo di Maddalena con una vocalità intensa e dai registri diversi, che vanno da quello più acuto a quello grave, con colori differenziati e una cassa armonica robusta, ben equilibrata, espressiva. Ma ha saputo anche mettersi in mostra con una presenza scenica inappuntabile, con quella tragica e amorosa pulsione da eroina che sacrifica la propria vita e muore per scelta con Andrea Chenier.
La vicenda del poeta Andrea Chenier, nato a Costantinopoli nel 1772 e ghigliottinato durante il terrore a Parigi nel 1794 nell’anno forse più cruento della vicenda giacobina, è nota. Come famosa è la frase di Gerard, un tempo alle dipendenze della marchese di Coigny, intimamente invaghito di Maddalena e divenuto capo rivoluzionario, che tenta di difendere il poeta al processo dalle risibili imputazioni: “Là è la patria dove si muore con la spada in pugno, non qui dove si uccide i suoi poeti”. E ancor più scolpita nella coscienza la sempre attuale: “Nemico della patria. E’ vecchia fiaba che ancor beatamente si beve il popolo”. Frasi lapidarie scritte da Illica, famoso librettista di Giacomo Puccini.
Qui la trama intreccia la vicenda del poeta Andrea Chenier, rivoluzionario, che temerariamente scrisse articoli di fuoco contro la degenerazione dello spirito dell’89 nella tirannia di Robespierre e fu condannato a morte due giorni prima della sua caduta, con la storia, letteralmente inventata, del suo amore per una ex nobildonna, per la quale devotamente si sacrifica. La sua parte é interpretata dal tenore lirico spinto, come richiede la parte, Martin Muelhe, che dispone di un pozzo di voce, non sempre perfettamente intonata soprattutto nei registri più bassi e nei recitativi, come richiederebbe l’impervia romanza “Un dì all’azzurro spazio” che si compone di spezzoni di melodie mai ripetute a canto scoperto. Anzi la sua vocalità impetuosa pare prescindere completamente dai ripiegamenti più intimi. Ottimo il Gerard di Claudio Sgura, un baritono che sa catturare anche le note più alte, aiutato in questo anche da un fisico da pivot di basket.
Forse risulta un po’ troppo statico e inespressivo in taluni momenti di particolare trasporto, ma la sua prestazione é stata di livello assoluto, giocata sui passaggi emotivi tra la difesa del suo ardore rivoluzionario e quella dei vecchi affetti. Direi che il suo è personaggio, come peraltro Andrea Chenier, che coglie appieno la trasfigurazione della rivoluzione in tirannia. Orchestra diretta da Aldo Sisillo, con prudente rispetto della partitura, senza originali trasporti, con scarsi ripiegamenti nella dimensione lirica e un eccesso di effetti bandistici. Regia e scenografia tradizionali. Con quella ghigliottina invadente e che trasforma l’opera in una Turandot da orgia di teste mozze. L’opera di Giordano, che contiene melodie di rara intensità e che é a pieno titolo inscritta nelle opere di repertorio (debuttò alla Scala nel 1896 e la diresse anche Malher che, chissà perché amava Giordano e non Puccini) per anni è stata espunta dal cartellone dei teatri di sinistra, quali erano quelli emiliani.
Nel dopoguerra solo tre rappresentazioni: nel 1953, e alla seconda cantò il ventinovenne Carlo Bergonzi, nel 1956 e fu un clamoroso fiasco, poi nel 1999, con esito incerto. Oggi che tutte le ideologie sono cadute anche questa vicenda di un poeta ucciso da una rivoluzione trascinatasi nel più sanguinoso autoritarismo non produce più alcun fastidio. Anzi quel “Viva la morte insiem” con la quale si conclude l’opera suscita emozioni e brividi non dissimili da quelli che provoca la morte di tanti martiri della resistenza.
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Hanno perso.La liberazione è vvina
si certo, infatti adesso cella diventerà meta turistica di alto livello....
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