Tra le non poche tragedie che hanno segnato il Novecento italiano, quella che mi ha sempre impressionato di più è stata il Vajont.
Basta una parola, Vajont appunto, per riportare alla mente l’immane sciagura che la sera del 9 ottobre 1963, come oggi, si portò via la vita di quasi duemila esseri umani inermi in quell’incrocio fatale tra la valle del Piave e il lago artificiale creato da una diga accanto al monte Toc all’altezza del paese di Longarone, nel Bellunese.
Mi sovvengono i racconti di mio padre quando si passava proprio di lì, pochi anni dopo, in automobile verso il Cadore. Alzavo gli occhi verso il finestrino e osservavo con trepidazione quella gola tra le montagne dalla quale si era mossa la tremenda frana del Toc.
Come immaginare che da quell’altura si fosse alzata un’onda alta 280 metri, e che in larga parte si fosse elevata verso il cielo per poi rovesciarsi mille metri al di sotto, devastando tutto come in una novella Hiroshima? Il disastro appariva in forma di dinamica semplice. Il monte frana dentro il lago, come un grande sasso nella pozzanghera, e l’acqua esce dai bordi e cade dall’altra parte dello scavo. Sembra semplice, troppo semplice per essere reale. Semplice, e tuttavia così inconcepibile.
La morte contemporanea e immediata di duemila persone in un fazzoletto di terra abitata può essere assimilata solo a un’esplosione atomica. Non a caso, se riguardiamo le immagini del dopo, il paesaggio è lunare. Niente rimase in piedi. Qualche chilometro più giù, in direzione Feltre, giovani scout si adoperavano per raccogliere i cadaveri rimasti appesi ai rami divelti e trascinati a valle dalla corrente. Quei corpi erano tutti nudi: spostamento d’aria e schiacciamento d’acqua non ne avevano risparmiato alcunché.
È lontano, oggi, il Vajont. Si può essere grati a Marco Paolini che qualche decennio fa ne fece uno straordinario monologo televisivo. Quel monologo fu l’atto fondativo del teatro civile italiano. Milioni di telespettatori restarono incollati allo schermo per capire, per approfondire, per entrare in contatto con una delle vicende più terribili del secondo dopoguerra.
Si poteva evitare la tragedia del Vajont? Certamente sì. Le responsabilità del disastro furono accertate, ma il tutto si risolverà con miti condanne sul piano giudiziario.
Nessuna pena o condanna potrà comunque mai lenire il senso immane di quanto accaduto. Si avverte la sensazione che accanto agli errori dell’uomo si muovano le azioni di una forza superiore. In tempi lontani si sarebbe detta una punizione degli Dei.
Possiamo chiamarla con altre parole, ma il senso è quello. Anche perché, come si è detto, le parole non bastano. Dentro torna il silenzio, e la consapevolezza che gli umani siano tenuti a non violare la Natura. Che alla fine vince sempre sulle nostre presunzioni.
Ultimi commenti
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