Neri Marcorè: “Tango del calcio di rigore” (sbagliato)

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5.3

Neri Marcorè torna a Reggio Emilia con “Tango del calcio di rigore”, uno spettacolo che si addentra nel rapporto tra calcio, potere e politica, dove lo sport ha spesso la peggio. Lo sfondo è quasi sempre l’America Latina, con quelle ambientazioni reali ma non realistiche, quasi magiche. Centrale è il racconto dei Mondiali di calcio del 1978, manovrati con interventi pesanti da Videla e utilizzati non solo come arma di distrazione di massa, ma come mezzo di propaganda per rafforzare la dittatura. Le urla dei tifosi coprono quelle delle madri dei desaparecidos.

Lo spettacolo però divaga e dà spazio anche a molti altri aneddoti: il racconto dell’arbitro colombiano Alvaro Ortega, ucciso per aver negato una rete alla squadra dei narcos di Medellin; la storia di Francisco Valdes, capitano del Cile, costretto dai militari di Pinochet a segnare a porta vuota contro la Russia.

Se la narrazione fosse intervallata solo da racconti di questo tipo, il risultato sarebbe probabilmente diverso. Il problema è che, forse per mancanza di idee o di chiarezza, vengono inserite storie che nulla o poco hanno a che fare con il tema calcio-politica: il rigore più lungo del mondo parato da El Gato Diaz, i fantasmagorici mondiali del ’42 in Patagonia e altre storie che abbassano la temperatura dello spettacolo.

Il testo è già di per sé complesso da mettere in scena a causa di questo collage poco coeso; il fatto che i pezzi siano intervallati poi da canzoni latineggianti, a volte drammatiche e a volte esageratamente comiche, non aiuta la schizofrenia dello spettacolo. Si passa da momenti toccanti a canzonette in costume da cactus in pochi minuti.

La scelta di alleggerire lo spettacolo con momenti comici non è sbagliata di per sé, ma doveva essere gestita meglio, con cambi d’intenzione meno repentini e meno drastici; invece in questo modo, anche se i momenti comici sono ben costruiti, il risultato è che il messaggio non passa, perché mitigato troppo dalla burla.

Il regista è Giorgio Gallione, autore anche della drammaturgia, e si vede: il desiderio di risaltare al massimo il testo ha reso esageratamente sciapa la regia, che di fatto consiste negli attori che si spostano da sedia a sedia, si siedono, si alzano e ricominciano; con movimenti di servizio che non risaltano quel che viene raccontato.

Non a caso i momenti più interessanti dello spettacolo sono i monologhi, quello di Neri Marcorè e quello di Rosanna Naddeo, che interpreta una madre argentina che deve affrontare il rapimento del figlio: gli attori sono fermi e il potere viene dato alla parola.

In generale, però, le storie più che raccontate vengono rievocate; gli attori – Neri Marcorè, Ugo Dighero, Rosanna Naddeo, Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto – entrano ed escono dal personaggio di continuo e questo si ripete fino alla fine dello spettacolo, senza lasciare spazio a variazioni. La messa in scena è carente di inventiva. Quando possono, gli attori danno prova della loro bravura, nell’intensità o nella comicità, ma la verità è che lo spettacolo non lascia loro molto spazio per brillare.

Si salva la scenografia: il palcoscenico viene illuminato di scena in scena da composizioni di lampadine dalla luce giallissima. L’effetto è veramente piacevole, anche se spesso slegato dal racconto.

Un rigore, quindi, calciato altissimo per Neri Marcorè e per questo spettacolo, che nel foglio di sala viene presentato come una critica sociale, ma che si perde nel tragitto.

I nostri voti


Attori
6
Testo
5
Regia
4
Scenografia
6