Si disse, ventiquattro anni fa, che l’11 settembre avrebbe cambiato il mondo. In realtà non lo ha trasformato, lo ha incrinato. Quelle immagini – i grattacieli che crollano, la vulnerabilità americana esposta davanti al pianeta – hanno segnato l’inizio non di una nuova era, ma del logoramento di quella esistente. Gli Stati Uniti reagirono con la forza, trascinando l’Occidente in guerre che non hanno risolto nulla e che hanno invece minato la credibilità delle democrazie liberali. Afghanistan e Iraq sono diventati simboli di fallimenti militari e politici. Ne è uscita un’America meno sicura, un’Europa più fragile, un Occidente più diviso.
Intanto, il terrorismo jihadista non è stato sconfitto: si è trasformato, diffuso, radicato. Dall’Asia al Sahel fino alle periferie europee, resta una minaccia permanente, che obbliga le società a convivere con la paura e con la tensione interna. La Russia, spinta all’angolo, ha cercato nuova linfa guardando a Est, e ha riproposto il proprio sogno imperiale attraverso guerre e aggressioni. La Cina ha colto il vuoto strategico per consolidare la sua ascesa. Guerre e conflitti si moltiplicano, mentre gli esseri umani continuano a uccidersi, incapaci di apprendere dalla storia.
Se qualcosa è davvero cambiato dopo l’11 settembre, non è stato in meglio. È cambiato il rapporto di forze nel mondo, a sfavore dell’Occidente. È cambiata la percezione della sicurezza, che è diventata più fragile. È cambiata la fiducia nel futuro, che si è fatta più incerta. Il mondo non è stato riplasmato: è stato peggiorato.







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