Wiesenthal, il racconto del nazista morente

dossetti16

Dalla paura alla gioia. I discepoli del Crocifisso hanno serrato per bene la porta, hanno chiuso fuori le speranze, la condivisione con altri esseri umani, insomma, il futuro. Qualcosa però è troppo intimo, per potersene sbarazzare: il fallimento, la memoria della propria viltà. Ma le porte chiuse non sono un impedimento per il Risorto. Egli entra e dice una parola, una parola d’uso quotidiano per gli Ebrei, oggi come allora: “Shalom”, pace a voi. Proprio questo carattere ordinario del saluto è sconvolgente: la pace, consegnata a quegli uomini, vuol dire perdono, anzi, qualcosa di più. Gesù mostra loro le piaghe della passione, come farà otto giorni dopo con Tommaso. Quelle ferite non si sono rimarginate, sono vive, sono vita, perché esprimono la forza creatrice di un amore che sa usare persino il male in favore degli uomini che lo hanno commesso. La paura, il rimorso, si trasformano in gioia.

A ben vedere, una condizione c’è. Si tratta di accettare la responsabilità di quelle piaghe e che tutta questa storia sia avvenuta per ciascuno, a cominciare da me. Mi chiedo, infatti: come si potrà rimediare a tanta violenza, alla guerra, all’oppressione, alla prevaricazione dei forti sui deboli? Come si potranno sciogliere le montagne di odio che sembrano crescere ogni giorno? Cerchiamo compulsivamente di allontanare da noi ogni responsabilità. La povera gente dei barconi è accusata di essere pericolosi aggressori. I poveri sembra siano tali per colpa loro. Il diritto proprio viene rivendicato a scapito di quello altrui.

Anche le grandi religioni vivono una stagione che appare spesso senza gioia. Molte di loro devono fare i conti con la violenza, che spesso viene giustificata o considerata inevitabile. Gli scandali opprimono anche gli innocenti.

Che fare, dunque? Penso che prima di tutto si debba orientare lo sguardo: il Risorto offre le sue piaghe alla vista e Tommaso vuole vedere. Abbiamo una bella parola, conversione. Convertirsi, vuol dire cambiare la direzione dei nostri occhi, certo, per un esame di coscienza: ma più ancora, per riconoscere che Dio non nega nulla agli umili: “Come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni, così i nostri occhi al Signore, nostro Dio, finchè abbia pietà di noi” (Salmo 123).

Il Risorto compie anche un altro gesto: soffia sui suoi discepoli. E’ un gesto che sembra strano solo a chi non ricorda la creazione dell’uomo, nelle prime pagine della Bibbia: la statua di fango viene animata dal soffio divino, la vita del Creatore viene trasmessa alla creatura, che diviene così un figlio. Gesù ripete il gesto, per ricordare agli Undici, ma anche a ogni uomo fino alla fine dei tempi, che tutto può ricominciare. Per questo, ai perdonati viene affidato il compito del perdono: “Come il Padre ha mandato me, io mando voi”.

Il perdono non è perdonismo a buon mercato. Penso soprattutto alle vittime, che potrebbero chiedere, con quale diritto qualcuno perdoni un’offesa fatta ad altri. Simon Wiesenthal, ne “Il Girasole”, racconta che, quando era prigioniero dei nazisti, un giovane SS morente gli chiese di perdonarlo a nome degli ebrei che egli aveva orribilmente sterminato. Egli negò il perdono, ritenendo di poter disporre solo del male inflitto a lui, non di quello subito da altri. Wiesenthal però sentì il bisogno, dopo la guerra, di sottoporre la sua scelta al giudizio di rappresentanti delle religioni, di intellettuali e politici. Mi è rimasto impresso l’intervento del Gran Rabbino di Francia, Jacob Kaplan: “Noi non dobbiamo essere generosi con la sofferenza altrui … (ma) sarebbe stato giusto che Lei avesse detto alla SS che non era in suo potere accogliere quella supplica, ma che la sincerità del suo pentimento e l’accettazione della morte come una giusta espiazione avrebbero certamente avuto peso nel giudizio di Dio”. Gesù va oltre, nell’incarico che affida ai suoi discepoli: “A coloro ai quali perdonerete i peccati, saranno perdonati”.

Mi chiedo: come essere degni di una missione così alta, come riuscire a non essere superficiali? Lo ripeto: penso che sia una questione di sguardo. Le ferite delle mani e del cuore di Gesù ci invitano all’umiltà e alla considerazione della dignità dell’altro uomo. In questo modo, la risurrezione può continuare.