“Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina”

Don Giuseppe Dossetti

Diciannovesima Domenica del Tempo Ordinario, Anno C – 11 agosto 2019

Dal Vangelo secondo Luca (12,32-48).

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.

Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!
Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Oggi Gesù aggiunge al discorso, che abbiamo letto una settimana fa, alcune importanti precisazioni.
Anzitutto, egli torna sul tema dell’elemosina. Essa è un modo per trasferire ricchezze nella banca del cielo. I poveri saranno i nostri avvocati davanti al Giudice. Ma l’attenzione di Gesù è rivolta al cuore dell’uomo, cioè al centro della sua persona, dove vengono prese le decisioni e gli orientamenti della vita: che cosa è prezioso per noi? Qual è il nostro tesoro? Che cosa amiamo veramente, al punto di essere disposti a rinunciare al resto?
La risposta è inevitabile: ciò che amiamo di più, ciò a cui più difficilmente rinunciamo, non sono le nostre ricchezze, ma il nostro io, la nostra presunzione di autosufficienza. Ecco perchè Gesù usa una dura parola: “servi”. Siamo servi, non padroni.
Tuttavia, non dobbiamo dare di questa parola un’interpretazione “stoica”, come se, riconoscendo i limiti della condizione umana, dovessimo ammettere che non siamo padroni delle nostre ricchezze e nemmeno dei nostri progetti.

Per la tradizione ebraica, invece, essere servi di Dio è un titolo di onore. Lo è anche per Paolo, che inizia spesso le sue lettere, qualificandosi come “Paolo, servo di Gesù Cristo”. Per l’israelita, il punto di partenza, il simbolo di riferimento, è sempre l’Esodo: eravamo schiavi di Faraone, siamo stati liberati, per prestare a Dio un libero servizio. Così, anche Paolo è stato “conquistato da Cristo Gesù” (ai Filippesi 3). Quello che la Bibbia chiama servizio, è in realtà il legame dell’alleanza, di un rapporto indissolubile, grazie al quale l’uomo “è”, esiste. L’uomo è un essere relazionale: ecco perché oggi sono frequenti le crisi d’identità: non si riesce più a rispondere alla domanda, “Io, di chi sono?”.

A forza di rivendicare una libertà come assoluta disponibilità di se stessi, la si è scambiata con la reversibilità di ogni rapporto, con legami deboli. Ma un uomo senza legami è solo: se vuole sperimentare il miracolo della comunione, deve accettare il limite rappresentato dagli altri, dal “tu” dell’uomo e anche dal “Tu” di Dio. La libertà è il libero assenso all’alleanza e alle sue esigenze. Anzi, l’alleanza mi fa esistere: io esisto veramente quando sono di qualcuno, quando appartengo, ma questo non può avvenire senza la rinuncia all’orgoglio adamitico, alla presunzione dell’autosufficienza.

Il servizio si attua in una storia, come del resto l’amore. Essere servi di Dio e degli uomini, vuol dire rinunciare al nostro progetto o, meglio, vivere la difficile dialettica tra i nostri desideri e ideali, da una parte, e, dall’altra, le richieste e le esigenze del “tu” che mi sta di fronte. Ma qui sta la vera grandezza dell’uomo, quando è capace di rinunciare a se stesso, perché la relazione viva. Certo, la parabola evangelica mette in risalto altri due aspetti.

Anzitutto, “il padrone tarda”. I tempi della vita sono raramente quelli che vorremmo. E’ proprio questo durare, mantenendo la fedeltà, senza cedere a lusinghe e paure, che fa sì che l’uomo diventi uomo, che le sue parole acquistino verità. Come potremmo parlare agli altri di quello che noi non abbiamo vissuto? Ricordo una famiglia, nella quale la mamma era ammalata di SLA e venne assistita dal marito per anni con un’amorevolezza e una dedizione incredibili. Certo, quando si sono sposati, si sono detti delle parole sincere: “Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Ma è stata proprio la malattia, il durare con pazienza, giorno per giorno, senza illudere e senza cedere al pessimismo, – sì, questo ha dato una verità ben maggiore a quelle parole. Questo vale anche per il nostro rapporto con Dio: come possiamo dire di amarlo, se la nostra preghiera è l’espressione dei nostri capricci o della volubilità dei nostri desideri?

In secondo luogo, il servo fedele si impegna nel compito che ha ricevuto, ma tende l’orecchio per sentire i passi del padrone che ritorna. Egli anticipa nel desiderio la gioia dell’incontro, aspira a consegnargli il suo lavoro e a sentire l’elogio: “Bene, servo buono e fedele: entra nella gioia del tuo signore”(Mt 25,21). Con un’immagine ardita, la parabola di oggi si conclude con il padrone che si fa servo e con i servi che diventano re. Ancora una volta, la promessa è questa: l’uomo diventa interlocutore di Dio, Lo può guardare negli occhi, a lui si dischiude il mistero della vita.

Il significato della vita e della storia è un rotolo chiuso, sigillato con sette sigilli, nella visione dell’Apocalisse. E’ l’Agnello che li infrange, l’Agnello sgozzato, immagine del Cristo crocifisso. In questi giorni, commemoriamo due santi martiri ad Auschwitz, il sacerdote polacco Massimiliano Kolbe e la suora tedesca di origine ebraica Edith Stein. Per loro e per tanti altri è stato difficile tenere accesa la lampada, in una notte che sembrava non finire mai. Ma è anche grazie a loro che oggi noi possiamo fare memoria di quel tempo senza vergognarci di essere uomini ed europei.

Massimiliano Kolbe, che si offre alla decimazione al posto di un altro prigioniero, è l’immagine della libertà dell’uomo, che ha in Dio il suo tesoro. Ma ricordiamo anche il contadino austriaco Franz Jaegerstaetter, che fece obiezione di coscienza alla guerra di Hitler e per questo venne ghigliottinato. Benedetto XVI, tedesco, con un atto di grande coraggio lo ha proclamato beato. Egli è la prova della libertà del cristiano, dell’uomo che sa dire di no agli idoli, che sa ripetere, come i tre fanciulli che Nabucodonosor minaccia di gettare nella fornace ardente: “Noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto”(Dan 3,16-18).