Ucraina, si deve continuare a parlare di pace

Don Giuseppe Dossetti

“Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi non metto la mano nel suo fianco, io non credo”. Così risponde Tommaso agli altri apostoli, che gli hanno dato la notizia della risurrezione di Gesù.

Io penso che Tommaso abbia ragione, nella sua pretesa, e che la sua richiesta sia assolutamente fondata. Egli vuole toccare le ferite dei chiodi e della lancia. Perchè? Aveva forse bisogno di convincersi della concretezza di quel corpo? Non sarebbe stato lo stesso se le ferite si fossero rimarginate e le cicatrici scomparse? Ma Tommaso ha ragione.
Non gli basta che il Maestro sia vivo: Gesù deve, di una necessità assoluta, portare quelle ferite, esse debbono essere ancora aperte, segnare il suo corpo, debbono far parte della sua identità, per sempre.

Non sarebbe sufficiente infatti che qualcuno dicesse a Tommaso: “Guarda, gli uomini cattivi hanno ucciso Gesù, ma Dio si è riservato l’ultima parola e ha riparato il male da noi fatto; alla fine, il bene vince!”. Per Tommaso il male rimane, il rimorso per la fuga e l’abbandono e, più in generale, il male del mondo, l’infinito cumulo di violenza, malvagità, egoismo: tutto questo non può essere dimenticato. Tommaso vuole sapere che cosa Dio intenda fare di tutto questo male, vuole sapere se anche questo male sia stato trasfigurato, sia stato assunto nella nuova realtà inaugurata dalla risurrezione. E’ proprio questo, ciò che Gesù gli dice, mostrandogli le ferite: Dio si è fatto carico del male del mondo, non solo perchè lo ha preso su di sé, ma perchè ne ha fatto strumento di bene per tutti gli uomini di tutti i tempi. Nella nuova realtà della risurrezione, la croce non appartiene al passato.

L’enormità della croce, infatti, manifesta l’enormità dell’amore di Dio per l’uomo. Nessuno è solo, ormai: l’uomo o la donna violati, disonorati, abbandonati o uccisi, il dolore innocente trova rifugio in quelle piaghe, acquista il diritto di chiedere a Dio pietà per il mondo, pietà per tutti, anche per i carnefici. Gli ingiusti, i violenti, gli egoisti, saranno tentati di mettere a tacere la notizia, preferiranno una Chiesa che dia buoni consigli, elevate regole morali, o che diventi un potere fra i tanti. Ma nel giorno in cui essi saranno spezzati, nel giorno della sconfitta, quando il dolore li visiterà e le memorie, che fino allora erano state rifiutate, diverranno un cumulo insostenibile, allora anch’essi avranno bisogno di rivolgere lo sguardo a quel fianco squarciato, a quelle mani trafitte.

“La guerra rende cattivi”: questo diceva qualche giorno fa Teresa Vergalli, novantatreenne staffetta partigiana. La guerra corrompe, anche perché tende a convincere che altre strade non esistono, che bisogna andare fino in fondo. Qui si manifesta il suo carattere idolatrico, al quale rischiano di arrendersi anche uomini religiosi, quando la trasformano in dovere sacro, quando alimentano l’odio per il nemico.

Dobbiamo invece affermare che altre strade esistono e che debbono essere cercate. Non possiamo accettare che di pace in Ucraina non si parli più e che ormai tutto sia ridotto alla fornitura di armi e si possa immaginare una parata vittoriosa in una città ridotta a cimitero, senza pietà per i morti, compresi quelli della propria parte.

Abbandoniamo dunque l’idolatria del potere e del denaro. La pace, che il Risorto dona e che diventa il suo saluto ai discepoli smarriti, è perdono ma è anche una nuova possibilità, è un invito al coraggio. E’ una missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi … A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.

Il nostro perdono, il nostro impegno per la pace e la giustizia, per la dignità di ogni uomo, immette nella storia l’energia della risurrezione. Terribile responsabilità la nostra, se mettiamo ostacolo alla volontà di Dio, a quelle mani trafitte per ogni uomo.