Tutto il potere ai colossi del Web

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Comprendo le ragioni di chi, magari nativo digitale, non trovi niente di strano nel fatto che le regole di accesso a un social media siano valide per tutti, e che qualora non siano rispettate, come hanno convenuto i proprietari di Twitter e Facebook nel caso del presidente Trump, vengano applicate le sanzioni previste, espulsione inclusa. Viviamo nel 2021 e per i boomer non è automatico ragionare con la mente dei più giovani.
Per noi, nipoti della democrazia liberale perimetro dei miracoli economici del secondo dopoguerra, un contratto commerciale non soverchia la forza morale di un contenuto superiore: Costituzioni, istituzioni, democrazia rappresentativa, libertà di espressione sono valori conquistati a caro prezzo e meritevoli di assoluta tutela.

Per farla breve: per quanto orrendo possa apparire ai più, Trump è stato ed è un presidente eletto negli Stati Uniti e ha diritto di parola, quale che sia. Anche il Mein Kampf di Hitler viene venduto nelle librerie. Quanto più una democrazia è in grado di contenere azioni sovversive al suo interno, tanto più si rafforza e dimostra di saper funzionare. La censura, in qualsiasi forma venga applicata, è un disvalore. È l’atto fondativo del principio antidemocratico e totalitario. Da essa non possono che derivare frustrazioni, aggressività, negazione dei diritti fondamentali.

Questo per dire che, in sintesi, il cortocircuito esiste e occorre sapersene prendere cura. Massimo Cacciari invoca la creazione di authority al servizio dei governi o comunque della politica che vigilino sulla qualità o meno dei contenuti espressi nei social media. Mi sembra una soluzione difficilmente praticabile. Le authority esistono anche in Italia ma l’efficacia della loro azione è assai limitata. E poi, va detto: col diritto dei giganti del web di organizzarsi come soggetto privato a loro piacimento, come la mettiamo?
Vorremmo forse opporci alla libertà del mercato?

La verità, come sempre accade, è figlia della storia. Nell’ultimo brandello del Novecento la tecnologia digitale ha fatto irruzione sulle nostre vite come pochi altri mega-eventi del mondo precedente. In una ventina d’anni le piattaforme in rete cono cresciute in misura abnorme, sino a coinvolgere miliardi di esseri umani (è il caso di Facebook e di Whatsapp). E non si torna indietro, anzi. Con la comunicazione mobile la parte digitale della nostra vita ha progressivamente preso spazio. Grazie al web possiamo lavorare, socializzare, studiare, fare acquisti di ogni genere… E Covid a parte, possiamo organizzare le nostre esistenze in un equilibro di azioni e relazioni svolte “in presenza” o “da remoto”.

Twitter, Facebook e compagnia sono nuovi continenti nei quali ci siamo ritrovati a vivere e, come è ovvio, anche la politica vi è finita dentro. Non è più minimamente ipotizzabile un’attività elettorale di un partito o di un candidato che non contempli una forte presenza nei social media. Nei quattro anni della sua amministrazione, Trump ha utilizzato Twitter come canale principale di comunicazione con i concittadini americani e con il resto del mondo. Quando ha esagerato, come è avvenuto nei giorni scorsi, gli è stata staccata la spina. Donde la domanda: ma a quale titolo un imprenditore privato può permettersi di togliere il microfono al presidente degli Stati Uniti? Si dice: a titolo di un contratto vigente tra Twitter e l’utente, sia pure il più importante.

Subentra allora la domanda definitiva, di nuovo: vi sentite più garantiti da una manciata di BigTech o da istituzioni politiche fondate sulla pratica della democrazia? Il problema è aperto e lo resterà a lungo.