Riceviamo e pubblichiamo in versione integrale questo contributo inviatoci dal lettore Andrea Giovanni Zanichelli, docente di lettere di Reggio.
È domenica pomeriggio. È una domenica piacevole di fine agosto. I ragazzi sono in giro perché le scuole ancora non hanno riaperto. Le famiglie sono in giro perché il sole inizia a essere un po’ meno caldo e più accogliente. Gli anziani sono in giro perché, probabilmente, sarà una delle ultime domeniche senza nebbia.
Decido di aggregarmi a questa festa mobile portando il mio cane a fare una lunga e divertente passeggiata alle prime avvisaglie del tramonto. Scendo e davanti casa sento tre persone parlare. Parlano una lingua che non capisco. Mi sento reggiano. Una signora si affaccia da un balcone popolare e urla per richiamare a casa uno dei bambini che stanno giocando a calcio giù in giardino. Mi ricorda molto una pubblicità dei primi anni 2000. Anche le sue parole non le comprendo, ma è chiaro che è arrivata l’ora della cena.
Proseguo costeggiando il conservatorio e i chiostri di San Domenico. Una soave melodia esce dalle corde di un violino. Pare la colonna sonora di un film. All’angolo della strada, un po’ in penombra ci sono due ragazzi che stanno fumando crack. Si dicono qualcosa. Non capisco. Ho un brivido di timore. Mi sento reggiano.
Proseguo ancora perché il mio cane ha un obiettivo: la fontana dell’acqua pubblica sul confine tra il teatro Municipale e i giardini pubblici. Arrivo davanti al Pavone dei Musei. Ci sono una decina tra ragazzi e ragazze che ballano con un piccolo stereo appoggiato sui gradini. La canzone non è italiana. La danza neppure. Mi sento reggiano. Sono belli i corpi che si muovono nell’aria simil estiva fluttuando e saltando.
Passiamo davanti al teatro. Qui alcune persone stanche, spossate o semplicemente annoiate dal taedium vitae siedono sciattamente sui gradini. Bevono birra mentre i piccoli figli giocano tra i getti della fontana. Mi sento reggiano. Arrivo all’acqua e il mio cane si può finalmente abbeverare. Riparto. Rifletto su quello che vedo scritto qua e là in cartelloni, manifesti, slogan: Reggio città delle persone. Sorrido. È vero. Non è ipocrisia come verrebbe da pensare. Le ho incontrate nella mia camminata. Persone. Lingue. Culture.
Proseguo. Arrivo nelle piazze storiche della movida. Perché? Perché il mio cane brama di potersi rotolare sui ciottoli delle piazze della città. Mi sconquassa una ventata di reggianità. Nella lingua. Nei modi. Nei cibi. Sento parlare solo reggiano. Non sento più urlare bensì ridere sguaiatamente. Mi sento reggiano. Non vedo birre bensì borghesi bicchieri da coktail. Non si fuma più crack, ma sigarette elettroniche al biscotto o al caramello.
Il mio cane si è rotolato e vuole rientrare. Mentre cammino verso casa un dubbio mi gela: Reggio è la città delle persone, ma queste persone lo sanno? Pare una metropoli multiculturale ma è più un grande tetris di ghetti. Finché ognuno rimane nella propria zona la città delle persone regge. Non si incontrano. Non si capiscono. Va tutto bene. Mi sento reggiano. Non capisco il perché. Va tutto bene.







Va tutto benissimo, non bene. E’ tutto meraviglioso.
L’estinzione felice.
Finalmete gli idagliani si estingueranno. Dubito che ci saranno rimpianti.