Quando Prampolini rovesciò le urne

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Il 4 marzo 1896, a seguito del fallimento della guerra d’Etiopia con le sanguinose sconfitte di Amba Alagi e di Makallè, cade il governo Crispi, al quale subentrano quelli a guida Di Rudinì e Pelloux. La situazione economica dell’Italia è drammatica. In tutto il paese e per tutto il 1897 si svolgono manifestazioni per il continuo rincaro del pane. Fanno paura i socialisti e gli anarchici che sembrano i padroni delle piazze. La repressione poliziesca del governo Di Rudinì non sembra però dare i frutti sperati. Nella primavera del 1898 le tensioni sociali raggiungono il culmine. Tanta è la miseria e la fame che vengono assaliti negozi, municipi e molte case di ricchi borghesi. La risposta del governo è sempre la solita: l’intervento dell’esercito. Non si comprende che i disordini non sono generati da un intento rivoluzionario dei socialisti e degli anarchici, bensì dalle gravissime condizioni economiche – sociali in cui versa il paese.
Milano è posta sotto assedio dal generale Bava Beccaris, che per sedare i tumulti fa uso dei cannoni. Il risultato è drammatico: 80 civili morti, 450 feriti, 2 militari morti. Vengono chiusi circoli e associazioni, gli arrestati e i processati non si contano e sono sospese le pubblicazioni di vari giornali. Anche La Giustizia subisce la sospensione di due mesi, ma anche dopo la ripresa delle pubblicazioni perdurano i sequestri e la censura. Il 12 novembre 1898 il prefetto di Reggio vieta perfino una conferenza di Prampolini al Politeama Ariosto.

A quel punto, il 30 gennaio 1899, Prampolini prende carta e penna e presenta una interpellanza al Presidente del Consiglio e Ministro degli Interni Pelloux nella quale richiede adeguate spiegazioni e l’immediato ripristino delle libertà democratiche.
La risposta consiste in una proposta di legge manifestamente anticostituzionale, ancor più limitativa della libertà di stampa e di riunione, lasciando alla discrezione dei vari prefetti il da farsi. Prampolini denuncia il tentativo di colpo di stato e chiama alla più ferma opposizione tutte le forze democratiche.

Scrive a Costa, a diversi esponenti delle altre forze politiche d’opposizione, ma soprattutto al gruppo parlamentare socialista affermando: “Siamo specialmente noi, alla Camera, che dobbiamo – anche con lo scandalo – richiamare l’attenzione del pubblico su queste proposte scandalose”.
La Giustizia del 7 maggio pubblica l’appello della Estrema Sinistra (socialisti, repubblicani, radicali, democratici sociali) rivolto a tutto il Paese. “L’Estrema Sinistra dopo larga discussione, considerando che si vuole sopprimere nel Parlamento il diritto di indicare ministri e indirizzi di governo per abbandonarlo a poteri occulti e fuggire sin la forma più elementare di responsabilità ministeriale, che è il voto nella Camera. Essa con tutti i mezzi consigliati dalla situazione, resisterà nel Parlamento e fuori, a qualunque governo che volesse risolvere le questioni più vitali per la libertà, per l’economia e pel decoro della nazione, senza il consenso della rappresentanza nazionale. Si muove nel nome del diritto, confida nell’appoggio del paese”.

Il 22 giugno 1899, il governo, incurante di ogni opposizione, presenta un decreto che attribuisce all’autorità di pubblica sicurezza la facoltà di vietare manifestazioni per ragioni di ordine sociale e al Ministero degli Interni quella di sciogliere le associazioni pericolose per la costituzione dello Stato. La stampa è soggetta a molte limitazioni e sono proibiti gli scioperi di diverse categorie di lavoratori: ferrovieri, postali, addetti all’illuminazione pubblica. Tali provvedimenti, afferma il governo, saranno attivi a partire dal 20 luglio, anche se non dovessero incontrare il favore del parlamento.
Prampolini, di conseguenza, propone di rispondere con l’ostruzionismo più duro, per cercare d’impedire ogni votazione o atti d’imperio.

Quando poi il Presidente del Consiglio pone in votazione segreta anche quattro e non tre come prevede il regolamento, leggi sulle variazioni di bilancio, l’aula s’infiamma e si verificano scontri anche fisici tra diversi deputati. L’espressione del voto deve essere palese e non segreta come chiesto dall’opposizione. Dinnanzi a tanta arroganza e disprezzo delle più elementari regoli parlamentari, i deputati socialisti Bissollati, Prampolini, Morgari e De Felice, passano all’azione. Scendono nell’emiciclo e rovesciano le urne. La seduta viene immediatamente sospesa e la Camera viene chiusa per tre mesi, il che fa decadere l’immunità.

Nei primi giorni di settembre il Procuratore del Re presso la Corte d’Appello di Roma spicca mandato di cattura contro i quattro deputati socialisti per aver impedito alla Camera d’adempiere alle sue funzioni. La pena prevista è di 12 anni di carcere.

Tornato a Reggio, Prampolini scrive al Procuratore Generale di Roma assumendosi la responsabilità del fatto. A metà mese, al ritorno da una riunione di partito a Parma, i compagni reggiani, accorsi in stazione, lo avvertono che un usciere è stato a casa sua per la notifica del mandato d’arresto. Appresa la notizia, Prampolini risale sul treno dal quale è appena sceso e raggiunge Roma. Il 18 settembre si reca al carcere di Regina Coeli. Le ragioni del gesto le illustrerà su La Giustizia del 5 novembre 1899. La sua decisione suscita ammirazione e grande solidarietà tra i compagni e gli amici. Il pittore Gaetano Chierici e Adelmo Sichel sono tra i primi a scrivergli. Altri messaggi d’incoraggiamento vengono da Storchi, Vergnanini, Cirillo Manicardi e Arturo Bellelli, oltre naturalmente alla stima e alla solidarietà espressa da Turati, Kuliscioff, Bonomi e dall’amministratore dell’Avanti! Ettore Mazzoni. Ad aggiornarlo sulle condizioni della famiglia, il fratello Giovanni è gravemente ammalato, provvede invece l’amico Patrizio Giglioli.

I compagni costituiscono subito un collegio di difesa composto dal radicale Sacchi, da Ferri, Berenini e dagli avvocati Borciani di Reggio e Lollini del foro romano. A fine ottobre però il governo vara un decreto di scarcerazione di Prampolini, Bissolati e Morgari. La cosa non piace a Prampolini perché perde l’occasione del processo per far conoscere al grande pubblico le motivazioni politiche che lo avevano portato a compiere quel gesto estremo. Stando a quanto scrisse a novembre su La Giustizia, il motivo principale era stato il mancato rispetto da parte del governo e della maggioranza della Camera, da coloro cioè che avrebbero dovuto dare l’esempio, delle leggi dello Stato e dunque della convivenza civile.