Forse, quest’anno, ci sentiamo come i due discepoli che lasciano Gerusalemme per tornare alla loro casa, a Emmaus (Vangelo di Luca 24,13-35). “Noi speravamo”, dice uno di loro: ora, non speriamo più.
In effetti, la nostra presunzione è stata colpita alla radice: ci siamo scoperti così deboli e fragili. Ma questo è un bene, un bene prezioso, perché è la verità. Grazie a essa, la Pasqua acquista nuovamente il suo significato: risurrezione! Risurrezione dai morti, risurrezione per i poveri morti di questi mesi, ma anche la risurrezione nostra, ora, come dice l’apostolo Paolo: “Siete risorti con Cristo: … rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (ai Colossesi 3,1-2).
Dov’è il Risorto? Molti se lo chiedono, di fronte al male, al dolore, alla malvagità dell’uomo. La risposta è tanto semplice quanto paradossale: Lui è lì, che cammina con te, è tuo compagno di viaggio. Come i discepoli di Emmaus, non lo riconosci, ma lui ti sta parlando; in questi giorni, hai imparato il silenzio; il silenzio delle nostre città, il silenzio delle chiese vuote, delle scuole chiuse, ma anche il silenzio interiore, le tante parole che progressivamente si sono spente. E’ ancora presto, per chiederci che cosa ci ha insegnato il flagello del virus, c’è il rischio di riportarlo dentro a una storia, che ancora una volta vogliamo scrivere noi. L’umiltà del silenzio: da qui dobbiamo ripartire.
Nel silenzio, il pellegrino che è dentro di noi e ci accompagna, parla: “Era necessario che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria”. Perché era necessario? Tu, pellegrino, pretendi che quella croce facesse parte del piano di Dio, che solo attraverso di essa avrebbe potuto realizzarsi. Perché? Può avere un senso la sconfitta, il dolore, la vergogna, il tradimento, l’assurdo?
La strada verso Emmaus è lunga. C’è tutto il tempo di ripercorrere una storia, quella di Israele, ma anche la nostra storia. Parole antiche, forse dimenticate o, peggio ancora, rese scontate dall’abuso e dalla superficialità, affiorano nel nostro animo. Qualcuno ci aiuta: il vangelo li chiama profeti. Non solo quelli di un tempo, ma anche oggi a qualcuno è donato di pronunziare parole semplici e vere, come a Papa Francesco, quel venerdì 27 marzo: “La forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte”; e, soprattutto, “Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza”. Abbracciare colui che ci abbraccia, con le mani trafitte per l’eternità, perché rimangano sempre aperte, per tutti.
Il cuore dei viandanti, ghiacciato dal dolore e dalla delusione, si riscalda. Sono alle porte di Emmaus e non vogliono lasciar andare il compagno che ha mostrato loro aperture di luce. Si seggono a tavola e il pellegrino “prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora, si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”.
Lo spezzare il pane, il gesto della condivisione, quel gesto che ripetiamo nelle nostre celebrazioni, rivela chi è il pellegrino. Soprattutto, rivela il senso di quello che Cleofa e sua moglie avevano vissuto a Gerusalemme: non il fallimento, ma l’atto estremo di un amore che vuole raggiungere tutti e che tutti, certamente, raggiunge, anche se per vie note solo a colui che, come Maria Maddalena, sente pronunziare il proprio nome, magari quando il pianto è più amaro.
Ma il rito diventa vita e la vita attinge forza dal rito. “Se abbiamo condiviso il pane eucaristico”, disse il cardinale Lercaro, “come non condivideremo il pane quotidiano?”. Spezziamo anche noi il nostro pane, condividiamo i doni che abbiamo ricevuto: e allora anche noi riconosceremo il Pellegrino e la risurrezione, la vita nuova, sarà incominciata.
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