«“Io non sono mai stata fascista” insiste la Meloni. E le si può credere. Ma oltre a dirlo bisogna provarlo. Soprattutto bisognerebbe spiegarlo chiaramente ai propri collaboratori, seguaci, militanti ed elettori». Come Fratelli d’Italia, il suo partito – affermano gli autori – non è un partito fascista e «come non lo è la Lega di Salvini, a dispetto delle simpatie neonaziste (con sfumature neoputiniane) di alcuni suoi amici molto influenti». Il punto qual è allora? Che non si può non dire «che i partiti sovranisti non siano diventati una potentissima calamita per le schegge del neofascismo che non si limitano solo a professare deprecabili nostalgie, davvero non si potrebbe». Allora perché Fratelli d’Italia, che aderisce al campo del conservatorismo europeo, «non prova a far chiarezza una volta per tutte?».
Una domanda che lasciamo in sospeso perché è la domanda che percorre tutto il bel libro di Rizzo e Campi e che ci pone di fronte alla realtà di un Paese, il nostro, che non ha mai fatto i conti fino in fondo col fascismo, che è parte, non secondaria, della sua storia del Novecento.
Il libro, infatti, sottolinea i «riflessi che ancora, purtroppo, condizionano i rapporti politici attuali e rappresentano una pesante ipoteca sulla maturazione di una certa classe dirigente. Incapace di lasciarsi alle spalle le scorie di un passato mai in realtà consegnato all’unico ambito in cui ormai dovrebbe essere collocato: la storia».
Succede che, ancora oggi, tracce più o meno tangibili del fascismo si trovano in piazze, palazzi (all’interno e all’esterno), vie e monti, per non parlare della cittadinanza onoraria concessa a Benito Mussolini a partire dal 1923 e, a valanga, dopo le elezioni politiche del 1924. Un’eredità che si è insinuata anche nel cuore dello Stato non solo con una certa continuità fra l’apparato burocratico fascista e quello democratico, ma anche con gli stessi uomini che prima avevano servito il duce e ora rendono servizio alla Repubblica antifascista. Oltre ai problemi causati dalla cosiddetta “amnistia Togliatti” del 1946, un’altra ragione va cercata nelle «pieghe della Costituzione», nella genericità, sostengono gli autori, della dodicesima disposizione transitoria che vieta la ricostituzione del Partito fascista, una “falla” che alcuni costituenti avevano denunciato. Quindi, la Repubblica si ritrova in pancia i discendenti diretti della Repubblica sociale italiana riuniti nel Msi, con la sua fiamma che si sprigiona da una bara (quella di Mussolini?), fondato, ancor prima della promulgazione delle Costituzione, nel 1946.
In questa sostanziale ambiguità, la doppia faccia dell’Italia post Liberazione viene ben stigmatizzata dalle pagine di apertura del libro. La lapide di marmo, double face, collocata in piazza San Giorgio nel quartiere di Pianura a Napoli, «il 9 maggio a. XIV E.F. 174° giorno dell’assedio economico» (ossia delle sanzioni inflitte all’Italia dalla Società delle Nazioni dopo l’invasione dell’Etiopia): sul «lato A» si esalta la fondazione dell’Impero fascista; sul «lato B» sono elencati i nomi dei caduti del quartiere Pianura durante le Quattro Giornate di Napoli (fine settembre 1943).
E si potrebbe continuare con tanti altri esempi, ma preferiamo lasciarveli scoprire leggendo questo libro “nobilmente” divulgativo che parla di storia e politica con taglio giornalistico, che non solo lo rende piacevole alla lettura ma spinge alla riflessione. Quando critica Umberto Eco e la sua versione del “fascismo eterno”, quando pone la questione se le tracce del fascismo, che si rivelano nel corso di restauri di palazzi (frutto dell’architettura razionalista), devono essere coperte, lasciate “sic et simpliciter” oppure lasciate ma opportunamente corredate da schede contestualizzanti. A questo proposito gli autori ricordano le parole di Gianni Rodari affidate a un articolo, intitolato “Proscritto per il Foro”, pubblicato sul quotidiano “Paese Sera” alla vigilia della Olimpiadi romane nel 1960 in cui, il grande scrittore per ragazzi, «si interrogava proprio su cosa fare con i lasciti architettonici e monumentali del fascismo, a partire proprio dal Foro Italico (già Foro Mussolini)».
Scriveva Rodari: «Si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate … Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere aggiunte». Che ci rimanda a un altro problema, ossia sarebbe opportuno un museo sul fascismo? Che potrebbe costituire «un rapporto critico [e] al tempo stesso costruttivo e creativo con la storia: l’antidoto migliore al suo uso strumentale [del fascismo] in chiave politica e al nostalgismo». Come è stato fatto con il museo dedicato a Ilaria Alpi, «che prevede il riutilizzo dei materiali del Museo coloniale» che ha sede «in un palazzo di stile razionalista a Roma, in via Aldovrandi, attiguo allo zoo».
Perché questa ombra di Mussolini, che continua ad aleggiare nel presente, ha probabilmente un segreto: avere trasformato il fascismo in un fenomeno pop. Tutto nasce nel 1946 dalla coppia Leo Longanesi e Indro Montanelli, insieme a Stefano Vanzina (in arte Steno), che dà alle stampe “Memorie del cameriere di Mussolini”, firmato da Quinto Navarra «che del duce è stato appunto il commesso per quasi due decenni». «È nato così – proseguono Rizzo e Campi – con una geniale intuizione politico-editoriale, il fascismo pop o light: regime del pettegolezzo e del pressapochismo…». In sintesi la «dittatura vista dal buco della serratura». Un filone ripreso dai rotocalchi e successivamente dalla tivù che dimostra che «cosa sia in realtà la cultura popolare di massa, quella veicolata attraverso strumenti di comunicazione, dai settimanali popolari al mezzo televisivo, per arrivare oggi ai social, che strumentalmente basano gran parte della loro presa sul registro emozionale e scandalistico, sul sensazionalismo e sul semplicismo, sul vacuo e sull’eccentrico».
Un libro tutto da scoprire, che tra le tante altre cose ci offre la ricostruzione della genealogia della famiglia Mussolini e della gesta dei suoi membri fino ai giorni nostri. Buona lettura.
(Sergio Rizzo, Alessandro Campi L’ombra lunga del fascismo, Solferino, 2022, pp. 414, 16,50 euro recensione di Glauco Bertani).
(Si ringrazia la Libreria del Teatro, via Crispi 6, Reggio Emilia).
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