L’Italia a colori

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Ricordo le lezioni di geografia a scuola, quando oltre a capoluoghi di provincia, fiumi, laghi, catene montuose, usi e costumi dovevamo sapere perfettamente a memoria i confini delle varie regioni e dei vari Stati.

Quando ero bambino, la mobilità era molto più lenta e le distanze sembravano incolmabili. Quand’ero a Rubiera, dai genitori di mia mamma, in “contea”, mio nonno inforcava la bicicletta e gridava dall’aia: “Vado a Rubiera a fare la spesa”. In realtà faceva 3-400 metri, ma era come se facesse un lungo viaggio. Il cane lo seguiva fino al termine del lungo viottolo ghiaiato e attendeva con calma il suo ritorno, all’ombra di una grande quercia.

Oggi, causa Covid, i confini sono segnati con i colori: dapprima solo tre – giallo, arancione e rosso – e poi è comparso il bianco, segno e simbolo di pace e speranza per il futuro; quindi l’arancione scuro, del tipo “incacchiato ma non troppo”. I ragazzi oggi non sanno più la geografia come una volta: non sanno dove scorrono i fiumi, dove sono le catene montuose, quali siano i capoluoghi di provincia e soprattutto non conoscono più i confini, perché in realtà non ci sono più limiti, barriere e sbarramenti. La mobilità è diventata talmente veloce che l’uomo si sposta da un posto all’altro con tutto il suo “bagaglio contaminato”, con estrema facilità e fluidità, anche fuori dai confini di Stato.

Sotto il profilo epidemiologico, invece, la geografia riveste ancora un ruolo importante e i determinanti geografici a volte sono variabili importantissime per lo studio dell’insorgenza e dell’evoluzione di una patologia; certo, questo non vale per una malattia infettiva a diffusione mondiale. Oggi, ormai da un anno, siamo di fronte a una pandemia: parola che deriva dal greco “pandemos”, cioè che interessa tutte le persone. Dal dizionario Treccani: “Pandemia = epidemia con tendenza a diffondersi ovunque”, cioè a invadere rapidamente vastissimi territori e continenti.

La prevalenza e l’incidenza dei casi di Covid non fanno che confermare che questo maledetto virus, con tutte le sue varianti, non ha confini di nessun tipo, tanto meno di tipo geografico. Dunque mi domando come si possa ormai da mesi continuare con il gioco dei colori valutando l’incidenza giorno per giorno, provincia per provincia.

Siamo di fronte al paradosso della prevenzione primaria, al paradosso delle misure di biosicurezza, siamo all’antitesi della quarantena. Ci sono paesi di confine che sono diventati dormitori di altre provincie attigue. In un’Italia lunga e stretta ci sono province che confinano con due o tre regioni: come si può pensare ancora a ridurre il longilineo Belpaese in un mosaico di colori cangianti quotidianamente?

Il Covid-19 e le sue varianti non hanno confini. Chiedo un po’ di lungimiranza ai vertici di questa Italia che è al “collasso emotivo” e non solo sanitario; chiedo di riflettere (e di valutare) sui terribili momenti che sta attraversando il sistema sanitario sotto il profilo professionale, etico e anche sotto il profilo economico.

Dal 16 ottobre, quando toccammo i 10.000 positivi e invocai il lockdown, ci sono stati più di 60mila morti e non ho più il conto di quanti malati in terapia intensiva e sub-intensiva ci siano stati. I riduzionisti e i meno sensibili, quelli che hanno scelto la strada della morte e non quella degli indennizzi, li inviterei a fare i conti e a chiedere alle Regioni qual è stata l’incidenza del Covid nelle spese del sistema sanitario: altro che ristori.