L’amore che supera la morte

Don Giuseppe Dossetti

Che fare di tanto dolore? La domanda si fa sempre più stringente, di fronte all’universalità e alla durata della malattia. Non è giusto dimenticare e, d’altra parte, non possiamo lasciar crescere in noi sentimenti di insofferenza o di rassegnazione.

In questi giorni, il calendario della Chiesa ci propone la figura di Maria Maddalena. La vediamo andare al sepolcro di Gesù al mattino presto e scoprirlo vuoto. A differenza di Pietro e Giovanni, ella rimane accanto a quella pietra rovesciata e piange; vuole tenere aperta la ferita, come l’unico mezzo per dare continuità all’amore.

Mi chiedo: a cosa pensava Maria, mentre piangeva? Credo che in lei crescessero due sentimenti, solo in apparenza contraddittori. Certamente, la morte dell’Amato toglieva il fondamento della sua vita. Non sappiamo se Maria è la peccatrice, che unge di profumo i piedi di Gesù, nel capitolo 7 del vangelo di Luca: tuttavia, l’atteggiamento è lo stesso, un amore di riconoscenza, lo stesso amore di san Paolo per chi gli ha usato grazia. Dove andare, ora che il Maestro non c’è più? Vuoto è il sepolcro, ma vuota è anche la vita, vuoto ogni futuro.

Nello stesso tempo, però, il rimanere di Maria ci suggerisce che in lei il legame con Gesù è diventato ancora più stretto. E’ vero: Gesù è morto; ma lei continua a chiamarlo “il mio Signore”. L’amore, non solo non accetta la morte, ma la supera: Gesù rimane presente nell’oggi di Maria, anzi, è l’unica presenza, mentre ogni altro fondamento ha perso valore.

“Donna, perché piangi? Chi cerchi?”, le chiede lo Sconosciuto. La domanda è di grande finezza. Quel pianto ha un senso, esprime una ricerca. Gesù rispetta il dolore dell’uomo, non lo considera una debolezza o una mancanza di fede: quel “perché?” invita a confidarsi, ad aprire il proprio cuore. La seconda domanda è ancor più piena di tenerezza: egli non si propone immediatamente come la risposta. Prima di tutto, va fatto un movimento verso se stessi, la risposta si troverà nel “cuore”, nell’interiorità più profonda. E’ lì che risuonerà il mio nome, pronunziato da un Tu, che non si impone, ma si offre.

“Non mi trattenere”, replica il Risorto a colei che vorrebbe abbracciargli i piedi. L’amore si apre al futuro. Sembra che Gesù dica a Maria: Mi avrai, solo se il tuo amore si dilaterà e andrà verso “i miei fratelli”, termine molto impegnativo, per designare gli uomini, tutti gli uomini, nella loro povertà e nei loro limiti.

Sotto questo aspetto, Maria diviene l’immagine della Chiesa. E’ inevitabile che la Chiesa abbia strutture e mezzi. Se vuole raggiungere “gli estremi confini della terra”(Atti 1,8), come le chiede il Fondatore, un po’ di denaro sarà necessario e Paolo non lo rifiuta, se sono i suoi discepoli a offrirglielo. Anche i nostri preti in Amazzonia ci hanno chiesto di finanziare l’acquisto di una barca a motore, per muoversi sul fiume, unica via praticabile. Tuttavia, la storia ci insegna che talvolta la struttura e l’organizzazione sono diventati fini e non strumenti. La “povertà della Chiesa”, uno dei grandi temi del Concilio Vaticano, non può però essere stabilita con tabelle e organigrammi. Ancora una volta, è l’amore che diventa anima e misura del concreto articolarsi della vita della Chiesa.

Possiamo usare la formula di san Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura. Le cose vecchie sono passate: ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17). La perseveranza di Maria e il suo pianto costruiscono in lei l’essere “in Cristo”, le consentono di prolungare la tenerezza di Gesù verso l’uomo. Così, l’uomo sofferente potrà trovare accoglienza e ascolto, e il dolore non diverrà una prigione, e il cuore sentirà che il suo nome è pronunciato e ci renderemo conto che siamo in cammino, anche se non sappiamo tutto, perché il Risorto ci chiama fratelli: “Ascendo al Padre mio e Padre vostro, mio Dio e Dio vostro”.