La Procura non fa appello: chiusa vicenda giudiziaria per gli ex sindaci di Brescello Coffrini e Vezzani

Comune di Brescello municipio fronte

Lo scorso 18 marzo la giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Bologna Roberta Malavasi aveva respinto la richiesta di rinvio a giudizio presentata dal pubblico ministero Beatrice Ronchi della Direzione distrettuale antimafia di Bologna per gli ex sindaci di Brescello Marcello Coffrini e Giuseppe Vezzani, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa: non luogo a procedere “perché il fatto non sussiste”.

Adesso, scaduti i termini per impugnare la sentenza, la Procura antimafia di Bologna ha ufficialmente deciso di rinunciare ad andare in appello, mettendo dunque fine alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto i due ex amministratori locali.

Vezzani, 56 anni, è stato sindaco del paese della Bassa reggiana dal 2004 al 2014 per il Partito Democratico, mentre Coffrini, 54 anni, fu il suo successore per circa un anno e mezzo, dalla metà del 2014 fino all’inizio del 2016; si dimise poco prima che, nell’aprile di quell’anno, il Consiglio dei ministri deliberasse lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, facendo di Brescello il primo Comune dell’Emilia-Romagna a essere sciolto per motivi di mafia.

Secondo le accuse della Direzione distrettuale antimafia di Bologna, entrambi avrebbero agevolato – pur non essendone membri a tutti gli effetti – le attività della cosca ‘ndranghetista Grande Aracri, operante in Emilia, favorendone il rafforzamento sul territorio grazie a permessi per costruire, assegnazioni di alloggi popolari e di appalti pubblici.

Ma per la gup del tribunale di Bologna, come si legge nelle motivazioni della sentenza che ha stabilito il non luogo a procedere, seppur non sia improbabile che l’azione amministrativa dei due sindaci “abbia prodotto un arricchimento della consorteria criminale, ciò che resta sfornito di prova è che gli imputati abbiano agito nella consapevolezza e nella volontà di realizzare quel risultato”. E ancora: per la giudice l’impianto probatorio dell’accusa “si mostra insanabilmente carente sotto il profilo dell’elemento soggettivo del reato, che presuppone anche la volontà di apportare un contributo. Ciò che difetta è la prova di collegamenti diretti fra gli imputati e l’organizzazione, indicativi di un accordo collusivo”.



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