Sul Monte degli Ulivi, al di là della valle del torrente Cedron, di fronte alla spianata dove oggi sorge la Cupola d’Oro, c’è una piccola chiesa, che ha la forma di una lacrima. Lì Gesù, alla fine del pellegrinaggio a Gerusalemme, il suo ultimo, che si sarebbe concluso con la passione, si ferma e piange sulla città amata, sul Tempio, nel quale era stato portato dalle braccia di Maria e Giuseppe, per essere consacrato al Dio dei padri; il Tempio che egli, dodicenne, chiamò “la casa del Padre mio” (Lc 2,49): “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (Mt 23,37).
Gerusalemme è la città del sangue; il Figlio dell’Uomo sa che il suo sangue si è mescolato e ancora si mescolerà a quello degli uomini fratelli. Egli discende l’erta del monte, varca il torrente, entra nella grande spianata, per la porta che doveva accogliere il Messia. Ora, egli compie un gesto di autorità profetica: caccia i venditori di bestiame e i cambiavalute, “Non fate della casa del Padre mio un mercato! “ (Gv 2).
Ai sacerdoti, che lo contestano, rivolge una parola che neppure i suoi discepoli comprendono: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Stupefatti, gli ricordano quanti anni è durata la ricostruzione, quarantasei. “Chi sei tu, sei un mago, o piuttosto un folle?”. “Egli parlava del tempio del suo corpo”, commenta l’evangelista, testimone del supplizio del crocifisso e della sua risurrezione il terzo giorno.
La pretesa di Gesù è inaudita: il tempio è il luogo nel quale Dio incontra l’uomo, dove l’Inaccessibile si apre all’incontro, come aveva detto Salomone, quando lo consacrò: ”Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito! Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa, verso il luogo di cui hai detto: ‘Lì porrò il mio nome!’. Ascolta la preghiera che il tuo servo innalza in questo luogo” (1Re 8,27 ss.). Ma ora non sarà più necessario andare a Gerusalemme per incontrare Dio; il luogo della presenza è la persona di Gesù, è a lui che ci si deve rivolgere. È lui il luogo dell’incontro, dell’eterna rinnovazione dell’alleanza dell’uomo con Dio.
C’è però una differenza: alla magnificenza dell’oro, alle pietre enormi, al fascino dei riti, si sostituisce l’immagine dell’ultimo degli uomini, l’Uomo dei Dolori, il crocifisso. Ma il messaggio non viene raccolto. Gerusalemme è ancora l’oggetto del desiderio, nel cui nome si uccide. Il Figlio di Dio piange sulla sua città e sul mondo, piange nella persona dei suoi fratelli violati, nelle guerre e nelle ingiustizie. Nessuna lacrima, però, riesce a spezzare i cuori induriti. Eppure, la terra è di Dio, in particolare quella che chiamiamo Santa; quindi, è di tutti. Ma ora è di nessuno, perché è profanata dal sangue e dal dolore senza risposta, senza apparente rimedio.
Non tornerò volentieri a Gerusalemme. Il Santo Sepolcro è una tomba vuota, vuota delle speranze degli uomini, vuota delle loro preghiere. È per me un’angoscia pensare ai blocchi stradali, alle occupazioni illegali, agli insediamenti costruiti su terreni rubati. Perché, Israele, rifiuti la tua vocazione, tu, che dovresti essere segno per il mondo? Segno permanente per te dovrebbero essere coloro che in te ancora pregano con le parole del profeta Isaia: “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: ‘Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri’” (Is 2).
Ora il Sepolcro è vuoto. Ma il sasso che lo chiudeva è scomparso e, per chi vuole ascoltare, l’angelo dice ancora: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? È risorto, non è qui” (Lc 24,4). Dov’è, allora? L’angelo esorta i discepoli a tornare in Galilea, al lago, dove tutto è cominciato. Bisogna tornare alla quotidianità, alle relazioni familiari, al lavoro, al rapporto con i poveri e gli ammalati, talvolta difficile ma necessario. L’apostolo Paolo esorta a “piangere con quelli che sono nel pianto” (Rom 12,15). Il pianto ci fa sentire fratelli; perché i governanti non piangono? Il prezzo che essi pagano è l’indurimento del cuore.







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